“Le nostre frontiere in Europa dovranno essere meno una barriera nello scambio delle idee, delle persone, dei beni. Il sentimento della solidarietà delle nazioni prevarrà sui nazionalismi ormai sorpassati”. Così Robert Schuman scriveva nel suo libro-testamento, pochi mesi prima di morire.
Si sperava che il varco aperto dai giovani europei, nel 1950, nella frontiera franco-tedesca posta sul ponte del fiume Reno a Stasburgo fosse la fine delle maledette frontiere! Questo sogno sembrava ancora più prossimo a realizzarsi nell’autunno 1989, quando i berlinesi della parte orientale poterono liberamente superare il muro sul quale o attorno al quale i “vopos” avevano abbattuto centinaia di tedeschi in cerca di libertà.
L’Europa si sarebbe avviata verso un periodo di pace e di prosperità anche accogliendo nell’Unione paesi dominati fino ad allora dall’imperialismo sovietico. Quei paesi avevano aderito progressivamente all’Unione perché “liberi non sarem se non saremo uniti”. Cercavano aiuto, lavoro, maggiore agiatezza. L’Unione li accolse senza enfatizzare i loro valori storici e culturali, prendendo su di sé l’impegno di armonizzare le loro deboli economie con quelle dei paesi più agiati.
La caduta delle mostruose ideologie aveva frenato la corsa verso miti che si erano dimostrati fallimentari. Dopo il diluvio della rivoluzione ungherese e della primavera di Praga, era comparso nel cielo dell’Europa orientale disintegrata e dissolta l’arcobaleno foriero di una nuova epoca.
In occidente, però, l’Europa si stava suicidando sotto una crisi finanziaria che rovinava la sua economia e con essa il benessere dei cittadini. L’Europa stanca e depressa invecchiava sempre più investita dalla crisi delle nascite, decadeva mentre provava l’ebbrezza del progresso tecno-scientifico senza finalità, il delirio di un esasperato consumismo e un libertinaggio morale.
In assenza di una vera e necessaria coesione spirituale, la moneta unica divenne, da motivo di unificazione, causa di dissidio tra paesi meridionali flagellati dalla recessione e tra paesi a economia forte. Si eresse così il muro delle incomprensioni: da una parte l’arroganza di chi sembrava voler umiliare i deboli, dall’altra il risentimento verso chi imponeva politiche restrittive. Col dialogo, con gli incontri, con estenuanti trattative si trovò un accordo e la politica fece crollare il muro della diffidenza.
Nel frattempo, masse di migranti e gente oppressa dalla miseria, perseguitata nel paese d’origine, in fuga dalla guerra premevano alle frontiere meridionali dell’Europa. Il mare Mediterraneo, culla della civiltà europea, divenne la tomba per migliaia di naufraghi.
Un governo eresse muri, un altro marchiò il braccio dei richiedenti asilo, un altro ancora chiuse le frontiere: erano gli stessi governi che, nell’ebbrezza di una conquistata libertà e di uno sviluppo economico che da anni inseguivano e che si era realizzato grazie all’Europa, avevano dimenticato che, nel novembre 1956 l’ultimo grido lanciato dalla radio libera ungherese fu: “Viva l’Europa!” o che avevano scordato la primavera che nel 1968 improvvisamente si era oscurata con l’arrivo dei carri armati sovietici.
Alcuni paesi ebbero un ravvivamento. Felice “crisi”, che divenne, come etimologicamente dice, “opportunità”, “decisione”. La cancelliera tedesca, da paladina del rigore e ossessionata dal rispetto dei trattati, riconobbe nel dramma dei profughi una vera e propria emergenza manifestando cosi’ anche il suo rigore morale: divenne una vera leader! Alcuni paesi la imitarono e per uscire dall’emergenza in cui si era impantanata l’Europa, si liberarono dai dèmoni della chiusura, della paura e decisero di percorrere con audacia la strada della solidarietà.
A spingerli verso questo ravvivamento non furono i governi, ma i popoli: i siciliani, i calabresi, i pugliesi, i greci che con le loro imbarcazioni da tempo si prodigavano per porre in salvo i naufraghi: cittadini ungheresi che si prodigarono a distribuire generi alimentari e di conforto alla fiumana di povericristi che bivaccavano nel piazzale della stazione di Budapest; gli austriaci che con le loro vetture varcarono la frontiera con l’Ungheria per accogliere donne e bambini stremati da una lunga marcia e poi gli abitanti di Monaco che trasformarono immediatamente la stazione ferroviaria in centro di ospitalità; i tedeschi che li accolsero festosi con i loro applausi, segno di benvenuto… La paura è stata sostituita dalla speranza. Occorrerà ora diffonderla tra chi è ostile alla solidarietà, che è di natura evangelica.
Le gabbie, che richiudevano interessi economici particolari, si sono schiuse, nei cuori asserragliati in visioni ristrette si è aperto il varco della fratellanza, agli occhi ristretti dall’individualismo si è aperto l’orizzonte della fiducia, nelle orecchie ostruite dal libertinaggio gonfio di parole insolenti sono risuonate parole di comprensione.
Era il 4 settembre 2015: esattamente cinquantadue anni prima, Robert Schuman, profeta dell’Europa unita e prospera nella solidarietà, rendeva la sua bella anima al suo Signore.
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