L’idea di città è necessaria per poter governare e non semplicemente gestire. Significa aver consapevolezza che la città è un organismo vivo, complesso, interconnesso, in cui un singolo elemento non è mai isolato ma influisce sull’insieme. Sono i cittadini che danno forma alla città la cui configurazione influisce, a sua volta, sulla cultura e il carattere degli abitanti.
Con la nascita della città inizia la civiltà umana; essa è il luogo della differenza dove è nata la politica per permettere alla varietà degli abitanti di convivere con le regole della democrazia; i grandi cambiamenti storici sono nati nelle città. Anche nella nostra epoca dominata dalla comunicazione di massa, le idee, i principi, i valori, i comportamenti sorgono dalla vita quotidiana nella comunità. L’idea di città non nasce tavolino.
L’ambiente e il clima hanno dato alla nostra città, tra il Settecento e l’Ottocento, un forte carattere di città residenziale, dove si è affermata la civiltà della villeggiatura con le residenze nobiliari, i parchi, i giardini; più tardi è sorto un sistema coordinato di trasporti su rotaia nel territorio prealpino e verso la metropoli che ha incentivato il turismo popolare, imitando il “modello svizzero”. Un secolo dopo l’intraprendenza dei “capitani d’Industria” e l’abilità degli artigiani hanno contrassegnato l’altro carattere di Varese, quello della città a “officina diffusa” dove opifici e residenze coesistevano armonicamente nel verde. Varese era conosciuta in tutto il mondo come “città giardino” ma anche come centro di produzione di manufatti di alta qualità.
L’equilibrio si è rotto nel secondo dopoguerra con l’avvento della motorizzazione individuale di massa che ha spinto le industrie fuori città, ha incentivato la costruzione di anonimi condomini e ha dato luogo a un nuovo tipo di espansione diffusa sul territorio. Un volta la città finiva dove c’erano i capolinea dei tram, ora si espande all’infinito.
Il traffico ha trasformato la città ma l’ha resa anche meno fruibile da parte dei cittadini; il miglioramento delle abitazioni è stato pagato con il degrado dell’ambiente e con la rinuncia ai processi di socializzazione. La città si è divisa per funzioni specializzate e la collocazione degli edifici ad uso pubblico sulle direttrici di penetrazione urbana ha reso più acuta la questione del traffico. Le antiche castellanze, con i loro caratteri, si sono saldate in una anonima periferia urbana, il centro si è svuotato, non ha altra funzione che quella commerciale. Si è verificata una artificiale frantumazione della città che non è priva di conseguenze: ha favorito l’individualismo, ha indebolito i rapporti di prossimità, ha accentuato la diffidenza e anche favorito la violenza.
Che fare per restituire a Varese i suoi caratteri fondanti, per consolidare la sua identità e per individuare una peculiare vocazione aperta al futuro?
Anzitutto servono regole flessibili ma non arbitrarie; gli strumenti urbanistici sono ancor utili riferimenti; il nuovo Piano di Governo del territorio deve anzitutto permettere il contenimento dell’espansione urbana entro limiti predeterminati; i collegamenti con i centri vicini non devono andare a detrimento del verde e dell’ambiente, si possono creare dei “varchi” ma non allargare le desolate periferie.
Si devono realizzare le condizioni perché la città corrisponda alla sua vocazione: non è più quella turistico-residenziale e neppure industriale; può aspirare invece ad essere un centro direzionale per le numerose fabbriche e aziende sparse sul territorio circostante; ma per diventarlo deve essere ben collegata con il territorio, appetibile in termini di qualità di vita, percorribile in tempi ragionevoli e dotata di adeguati servizi. Non può essere una pista intasata e riservata alle automobili ma deve valorizzare le risorse ambientali e monumentali che l’hanno resa celebre in passato.
La dissipazione dei caratteri tradizionali della “città giardino” deve finire! Cosa serve a Varese?
Anzitutto dei confini certi oltre i quali non è possibile edificare, bisogna separare nettamente la città (che consuma) dalla campagna (che produce le risorse naturali) e circondare Varese da una fascia di boschi che la proteggano dall’inquinamento (“green belt”); serve costruire sul “già costruito” con i restauri e nei luoghi dismessi e inutilizzati; occorre rendere intangibili parchi e giardini. gli appartamenti possono essere restaurati con incentivi e destinati a piccoli nuclei familiari. Il centro storico va recuperato e rimodellato senza ulteriori colate di cemento e tenendo presente che l’ “arredo urbano” non è un insieme di “posticci” ma di cose utili alla cittadinanza. Così si realizza il modello di “città compatta” in alternativa alla “città dispersa” che, abbreviando i percorsi, alleggerisce anche il traffico.
Va privilegiato il mezzo collettivo, magari con il ripristino della rete tranviaria e l’adeguamento delle ferrovie di impianto ottocentesco per essere concorrenziale, per qualità e costo, a quello individuale; i parcheggi devono essere costruiti in periferia.
In cima alle priorità ci devono essere i servizi alle famiglie, alle persone in condizioni disagiate e agli immigrati che sono divenuti una realtà ineludibile; servono anche luoghi di socializzazione come le biblioteche, i centri culturali, i piccoli impianti sportivi, le piscine, le piste ciclabili, il teatro-auditorium. Non ci vogliono tante cose ma quelle che interagiscono con le funzioni essenziali della città.
Da non fare: gli inutili parcheggi sotterranei nei parchi e nei posti panoramici, gli edifici, gli alberghi o le cave nei luoghi protetti da vincoli ambientali e idrogeologici, la maxistazione sproporzionata rispetto alle inadeguate linee ferrate, la cementificazione selvaggia per lucrare sugli oneri di urbanizzazione.
Se non c’è l’idea di città, Varese scompare in un indistinto aggregato urbano.
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