Se le bellezze della natura possono provocare una sindrome simile a quella di Stendhal, allora bisognerebbe darle il nome del Grand Canyon. Non credo, infatti, che esistano molti altri luoghi di impatto emotivo così potente.
Mi trovavo negli Stati Uniti per visitare alcuni parchi del West. Avevo già visto il Bryce Canyon, avevo attraversato l’Arches Park e la Monument Valley in un crescendo di emozioni – di cui magari racconterò un’altra volta – e mi aspettava il Grand Canyon.
Per tutta la mattina e per la prima parte del pomeriggio ci addentriamo nel parco con i bus navetta che si fermano in diversi punti panoramici, e ogni visione è una sorpresa. Dopo decine di documentari e di film si pensa di essere preparati a ciò che si avrà davanti e invece dal vero l’esperienza è tutta un’altra cosa. Ti trovi su uno spuntone roccioso, proiettato nel vuoto, e fin dove riesci a spingere lo sguardo vedi un susseguirsi di forme imponenti, disegnate da profonde fratture ondulate in tutte le sfumature dell’ocra e del marrone. E da ogni punto di osservazione lo spettacolo è sempre differente e sempre entusiasmante. Se poi pensi che il tutto si estende per oltre 400 chilometri e che ciò che hai di fronte non è che una piccola parte, non vorresti più allontanartene.
Ma l’esperienza più coinvolgente deve ancora venire: nel tardo pomeriggio è prevista un’escursione facoltativa in elicottero. Costo: 250 dollari. Pagherei qualunque cifra pur di non perdere questa occasione.
Con i compagni di viaggio meno fifoni mi reco all’eliporto: ci pesano, ci conducono sul campo di volo e ci distribuiscono sui velivoli tenendo conto della corporatura di ciascuno. Siamo sei più il pilota. Ci allacciano le cinture, ci fanno indossare le cuffie, ci alziamo.
Sorvoliamo dapprima una foresta di pini “ponderosa” che si estende a perdita d’occhio e intanto in cuffia ci arriva, inaspettata, la musica del “Così parlò Zarathustra” di Strauss. “Quanta retorica!” penso all’inizio, ma subito dopo mi chiedo se riuscirò a sopportare due bellezze contemporaneamente. Quando il pezzo esplode nel “fortissimo”, si apre sotto di noi la sconfinata distesa di rocce scavate dal fiume. La profondità è vertiginosa, tanto che il Colorado si vede solo a tratti. La giornata è limpidissima; il sole, basso sull’orizzonte, esalta i colori: è una sinfonia di rossi, marroni, verdi in un arabesco di stratificazioni. Capisco perché i primi esseri umani che si sono trovati di fronte a questo spettacolo l’abbiano considerato un luogo sacro.
La compagna di viaggio che mi sta di fronte mi mostra le braccia con la pelle d’oca. Suo padre, seduto accanto a lei, mi sorride con gli occhi lucidi. Allora anch’io perdo ogni ritegno, faccio scorrere il dito lungo la guancia per indicare che sto per piangere e lascio che le lacrime scendano. Non riesco a trovare altro modo per esprimere l’intensità e la complessità delle emozioni: smarrimento e consapevolezza, impotenza e senso di dominio, turbamento ed esaltazione. Trovarsi di fronte a uno spettacolo maestoso e “sentire” il privilegio di farne parte.
Quando atterriamo mi ricompongo, anche se non mi vergogno di aver pianto. “Alla fine di questo viaggio” aveva detto la guida “sarà cambiato in voi il concetto di orizzonte”. Ma non è cambiato solo il concetto di orizzonte fisico. Si sono aperti varchi inaspettati verso orizzonti più vasti.
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