All’alba di giovedì 3 settembre all’età di 92 anni Renato Morandi è morto a Pinerolo. Negli ultimi tempi era andato a vivere con la figlia Silvana nel vicino paese di Pinasca in Val Chisone. Ragioniere, dirigente dell’INAM provinciale, è stato a lungo alla ribalta della vita sportiva e politica varesina. Immigrato con la famiglia dal Lodigiano (il padre, Pietro, fu sindaco socialista di Secugnago deposto dai fascisti con la violenza), da giovane si distinse come ottimo corridore ciclista. Nel 1942 sull’anello del Velodromo Vigorelli di Milano vinse il titolo di campione italiano su pista, categoria dilettanti. Una promettente luminosa carriera sfortunatamente interrotta dalla guerra e da una malattia. Partecipò alla guerra di Liberazione unendosi ai primi partigiani di una formazione garibaldina del Comasco. Non abbandonò mai la passione per il ciclismo partecipando ancora ad alcune corse e collaborando alla formazione del mitico Velo Club Varese. Negli anni successivi non mancò di dare il suo valente personale contributo alla ricostruzione della vita democratica nella città di Varese. Fu consigliere comunale eletto nelle liste del Pci ed apprezzato dirigente dell’Ospedale di Circolo accanto al presidente Dante Trombetta. Per lungo tempo ha ricoperto la carica di presidente dell’Automobile Club di Varese. Era socio vitalizio della So.crem varesina.
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Ci incontrammo nei primi anni ’40 nel negozio di Augusto Zanzi in via Veratti, una sede tutta particolare dove numerosi varesini hanno coltivato sia la passione del ciclismo che quella per la libertà, contro l’imperante fascismo.
Renato, ancora giovanissimo, aveva già vinto alcune corse minori, sempre in volata dominando il gruppo col suo spunto veloce. Fu per questo che il padre, Pietro, il maggiore tifoso dei suoi figli (anche Anselmo si dette al ciclismo ) l’avviò al ciclismo su pista. Pur non sorretto da un fisico eccezionale, Renato possedeva riflessi rapidi e astuzia agonistica che lo portarono presto ad ottenere importanti successi. Furbizia, intelligenza tattica, correttezza, mai gomiti troppo allargati o micidiali strette in curva per danneggiare l’avversario: questa la “cifra” dell’atleta.
La più bella giornata sportiva la visse a meno di 20 anni di età nel 1942, al campionato italiano dei dilettanti. I turni d’avvio avevano portato all’eliminazione dei concorrenti più accreditati, i vari Degli Innocenti e Bandiera. A disputare la finale Morandi si trovò davanti il bergamasco Donizzetti, una sorpresa che fino a quel momento aveva sbaragliato gli avversari. Quella domenica al Velodromo Vigorelli di Milano c’eravamo tutti, noi amici varesini, entusiasti come non mai, seduti come al solito nella tribuna centrale opposta all’arrivo dove il biglietto costava meno ma la visione era accettabile. La prima prova fu nettamente persa da Renato che rimediò vincendo la seconda. Ci voleva “la bella” e la nostra tensione era massima, immaginiamo quella di Renato ! Fu una gara ricca di tante emozioni, per chi vide e chi… non vide il trionfo finale sul traguardo. Ai 250 metri Renato riuscì a far partire in testa l’avversario affiancandolo poi in curva. Il padre Pietro, che mi sedeva accanto, e gli altri amici si coprirono gli occhi con le mani. La volata la seguirono dalla mia fono-cronaca urlata con i “Dai Renato!” e col liberatorio “Ha vinto ha vinto!”. Portammo a Varese una smagliante maglia tricolore.
Quella stessa maglia che Renato orgogliosamente indossò come cittadino, fervente antifascista, anche fuori dall’agone sportivo come segno patriottico in una storica giornata per il nostro Paese. Il 25 luglio del 1943 la notizia del rovesciamento di Mussolini da parte del suo Gran consiglio del fascismo suscitò ampio entusiasmo popolare. Tanta gente nelle strade. Renato si presentò felicissimo al solito negozio dell’Augusto fasciato dalla sua maglia tricolore. Vivemmo insieme quella mattinata. In bicicletta ci recammo nella vicina piazza Monte Grappa dove una folla urlante salutava una incessante pioggia di carta gettata dal balcone della Torre Littoria. Erano documenti della sezione del fascio di Varese.Volava pericolosamente al suolo anche qualche cassetto. Un esagitato gettò una effigie del dittatore, vetro e cornice compresa.
Non so come mai a me e a Renato passò per la mente di andare a vedere cosa succedeva a Casbeno al Palazzo del Littorio sede della federazione provinciale dei fasci. Lì, tutto silenzio. Sette od otto funzionari del fascio erano in piedi schierati sulla gradinata sicuramente in attesa di un assalto. Invece giunsero due ciclisti, uno in maglia tricolore con l’immancabile amico. Ci fermammo ad una diecina di metri e a gran voce chiedemmo che anche in quel palazzo fosse issata la bandiera tricolore. Volevamo insomma quel segno di giubilo. Quelli finsero di voler meglio capire e tranquillamente si avvicinarono a noi, fermi a cavalcioni della nostre bici. Ci circondarono e ci riservarono una gragnola di pugni. Ci salvò una ritirata strategica abbandonando le bici in mezzo alla piazza. Le recuperammo appena i nostri aggressori rientrarono nel palazzo. Più tardi tornammo un poco ammaccati, non più stupidamente soli ma alla testa di numerosi altri manifestanti. Salì finalmente anche su quel palazzo la bandiera tricolore mentre i nostri aggressori erano scomparsi senza lasciare traccia.
Dei numerosi anni trascorsi insieme nel Partito Comunista sui banchi del Consiglio comunale di Varese, al di là dei pure numerosissimi problemi cittadini sui quali si esercitava la nostra attenzione di oppositori, mi piace ricordare uno dei momenti in cui Renato ha dato certamente un notevole contributo concettuale per il futuro della nostra comunità. Erano gli anni in cui il Governo DC-PSI aveva scoperto il valore strategico della programmazione economica. Programmazione pareva diventata la parola magica, il metodo infallibile per il fare. Così si cimentò anche la giunta comunale del tempo. Due assessori certamente validi prepararono un ponderoso studio per programmare lo sviluppo del prossimo triennio. Un numero infinito di pagine, cifre, grafici, puntualmente criticati dal PCI. Dietro le tre P di programmazione, pianificazione, progettazione, si intravvedeva soltanto ordinaria amministrazione. Mancavano idee per il vero sviluppo a venire. Renato lo fece osservare svolgendo un lungo articolato discorso partendo dalle teorie dell’economista inglese Maynard Kinsey sul deficit spending. Non era immaginabile lo sviluppo creando deficit per la spesa pubblica ordinaria, di apparati, opere inutili od effimere. Occorreva pensare in grande, investire in opere straordinarie, infrastrutture indispensabili per la città quali l’unificazione delle stazioni, il recupero di aree dismesse con le creazione di una ampia zona per piccole e medie attività produttive, la realizzazione di un anello stradale di scorrimento circolare che evitasse l’attraversamento del centro sia dei flussi di traffico extra urbani che di quelli tra le stesse castellanze cittadine. Il finanziamento di tali opere con mutui pluriennali trovava allora ampia capacità di bilancio. Perché non sfruttarla per creare sviluppo e migliorare la vita dei cittadini? Perché compiacersi di chiudere bilanci comunali sempre con utili consistenti ma improduttivi ?
Renato come amministratore pubblico amava guardare avanti, per sognare sì, ma rimanere nel concreto delle cose. I problemi cardine sono ancora quelli di 40 anni fa Non certamente i soldi che oggi scarseggiano.
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