Ci sono momenti in cui gli umori dei popoli mutano come d’incanto. Ciò accade se una catena di eventi tocca la più ancestrale sfera simbolica collettiva. Improvvisamente si avverte nell’aria l’avvento di una conversione, di un comune cambio di direzione, di una catarsi liberatoria.
Ai moltissimi italiani (ma anche europei) che non hanno voglia né di riflettere né di abbandonarsi ai buoni sentimenti, gli sbarchi via mare dalle coste libiche hanno fatto percepire lo straniero, anche il più disperato, come un alieno venuto da chissà dove. Poco importa se i loro martoriati territori d’origine – la Somalia, l’Eritrea, l’Afghanistan, l’Iraq, la Siria, la Libia, la Costa d’Avorio – pagano i frutti dei colossali errori politici dell’Occidente. Quegli sbarcati a piedi nudi con addosso una maglietta taroccata di un qualunque grande team calcistico europeo non sembravano avere una storia, un passato, un vissuto. Più che la conta dei sommersi e dei salvati, facevamo la conta delle spese, e ce la prendevamo con l’Europa, perché non sborsava abbastanza. Soldi nostri in solidarietà proprio non ne volevamo spendere.
I migranti, in grande maggioranza profughi, venivano dipinti e vissuti come una minacciosa marea di delinquenti, di untori e di parassiti venuti a vivere qui cazzeggiando beatamente a nostre spese. Quartieri e paesi manifestavano indignazione preventiva al solo pensiero di doverne ospitare qualcuno. Contro la Boldrini, colpevole di essersi occupata per anni ad altissimi livelli dei drammi dei rifugiati, partivano ovunque raffiche d’insulti.
Ma se un giorno muore un bambino, Aylan, e la foto del suo corpicino in braccio a un poliziotto dal volto umano fa il giro del mondo, e se scopriamo che il Canada, nel suo sordido egoismo, ha negato asilo a suo padre e alla sua famiglia, condannando a morte per annegamento lui, sua madre e il fratellino, allora lì scopriamo una storia. Vediamo sofferenze in carne e ossa, non paurosi fantasmi. E quella storia schiude il nostro ascolto ad altre consimili. Ritroviamo le orecchie.
È un po’ come davanti alle testimonianze che abbiamo letto quest’anno nel centenario dell’ingresso italiano nella Prima Carneficina Mondiale. Se uno dice: «I morti furono oltre 600.000», è un numero, un’astrazione. Ma se leggo il diario di trincea di un fante semianalfabeta, e leggo della sua vita al fronte e magari dei crimini dei suoi ufficiali, mi commuovo come un vitello. Non piangiamo se sappiamo degli oltre sei milioni di ebrei vittime del nazismo, ma di Anna Frank. Ed è come se la piccola Anna ci parlasse ad una ad una di tutte le altre vittime.
Ma i sentimenti comuni (e non solo in Italia) sono cambiati quando alla stazione di Budapest (la capitale della cinica e inospitale Ungheria retta dalla democratura fascistoide e antisemita di Orban, la capitale di un paese ormai dimentico dei suoi 250.000 profughi accolti in Europa dopo la brutale repressione sovietica del 1956) abbiamo visto migliaia di profughi siriani accalcarsi peggio che sardine sui pochi treni messi a disposizione dal governo per condurli più a nord e porre così fine al loro viaggio da un inferno all’altro.
Poi li abbiamo visti incamminarsi a piedi, in 30.000, sul Ponte Elisabetta e di lì in autostrada, quasi 200 km per raggiungere il confine di un’Austria che fino a poche ore prima non voleva saperne nulla di loro anche se tutti sognavano di essere accolti non lì, ma in Germania, il solo paese europeo che abbia fatto seriamente i conti con il proprio orribile passato vaccinandosi per sempre.
Simbolicamente, il cammino di moltitudini erranti e disperate verso una mèta incerta, mitologica, che speriamo salvifica, è parte delle memorie più remote dell’umanità. Impossibile restare insensibili. Arcaico e moderno si incontrano, e scuotono i cuori.
E ora, mentre ritroviamo l’uso degli occhi (e delle lacrime) vedendo i bavaresi che accolgono i profughi siriani a braccia aperte, finalmente ci commuoviamo, proviamo empatia, ci identifichiamo sia con i profughi che con chi è accorso spontaneamente per aiutarli, ospitarli, dare loro del cibo o semplicemente il benvenuto. E con tutti loro e come loro sentiamo risuonare nel nostro cuore le note dell’Inno alla Gioia. Tiriamo un sospiro di sollievo. Sono salvi. Siamo salvi. Già, ci sentiamo salvi anche noi: abbiamo idealmente condiviso con loro qualche centinaio delle molte migliaia di chilometri che hanno compiuto con ogni mezzo per salvarsi dalla furia islamista; e ci sentiamo finalmente redenti dai nostri fantasmi e restituiti all’umanità, a sentimenti civili, al minimo sindacale della bontà.
È certo bizzarro un aspetto di questa vicenda. La medesima Frau Merkel che due mesi fa stava per condurre l’Europa sull’orlo del baratro in nome di ciechi egoismi da bancari, oggi la rianima con una condotta esemplare, mostrandola finalmente degna del suo maestro, il grande Helmut Kohl. Anche i suoi gesti hanno contribuito a mutare la rotta dei sentimenti collettivi. Se è umana persino lei, così arida e glaciale davanti alle sofferenze dei greci, posso esserlo anch’io.
Per gli italiani agisce poi un ulteriore elemento non secondario. Fino a che i profughi, i disperati sembravano sbarcare solo qui, vedevamo solo il nostro psicotico ombelico, e ci sentivamo giustificati a spandere veleni su veleni. Potevamo permetterci di disumanizzare gli alieni invasori. Ora vediamo gli altri – i greci, i macedoni, i serbi, poi gli ungheresi e un po’ meno gli sloveni, ed ora austriaci e tedeschi – alle prese con lo stesso problema, ma via terra. L’ombelico esce dal focus visivo, e con la presa di distanza da sé si comincia a far tacere le viscere, a riflettere, a empatizzare, a sciogliere le durezze del rancore, della paura, dell’egoismo e del cinismo in sentimenti più umani.
Improvvisamente si annunciano tempi duri per i cinici imprenditori politici dell’odio come il livido Salvini. È caduto il Muro, e il lugubre Matteo sembra di colpo l’ultimo Vopo.
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