Diciamoci la verità: gli immigrati sono «tutti ladri e puttane, protettori e fannulloni. Pronti a mangiare il [nostro] pane».
Nei porti, lì da dove partono, vedi questi barconi che continuano «a insaccar miseria». «La maggior parte, [ha] passato una o due notti all’aria aperta, accucciati come cani per le strade stanchi e pieni di sonno. […] Delle povere donne che [hanno] un bambino da ciascuna mano, regg[ono] i loro grossi fagotti coi denti; delle vecchie contadine in zoccoli, alzando la gonnella per non inciampare nelle traversine del ponte, mostra[no] le gambe nude e stecchite; molti [sono] scalzi, e porta[no] le scarpe appese al collo.»
Sappiamo bene della tristezza e delle miserie di questi viaggi. Più di un migrante ha raccontato come la speranza di un avvenire migliore e di un benessere facile si fosse infranta su quelle imbarcazioni:
«Lungo, disastroso il viaggio, in arbitrio di armatori avari e inumani, entro immonde sentine, ove decimati dal vaiuolo e dalla dissenteria, o allo strapazzo del vento».
Quando poi sbarcano, la prima cosa che gli tocca fare è «calarsi le brache». Nei «dormitori – è cosa risaputa – nelle interminabili dodici notti di viaggio sparisce di tutto – dai risparmi al formaggio, dalle teste d’aglio alla verginità – e niente si ritrova».
È un’umanità penosa, quella che tocca terra. E puzzolente: «Il più di loro non [porta] niente oltre i vestiti che [ha] indosso, un solo paio di scarpe, una grossa coperta annodata e una valigia. Per forza che puzzano quando [arrivano]: [hanno] indosso la stessa roba della partenza, condensata nel sudore, nel freddo e nel vomito […]».
Le leggi tentano in qualche modo di arginare questa marea umana. I nuovi arrivati vengono portati in «una specie di reparto emigrazione, un corridoio buio con delle panche. Fanno la coda quasi in silenzio, qualcuno sussurra, entrano a turno dai funzionari, come dal dottore. […] Il funzionario spiega: c’è una legge, una nuova legge, […] potete entrare, primo, se avete un contratto di lavoro firmato; secondo, se il datore di lavoro, il padrone, vi ha mandato un altro foglio che è l’assicurazione, insomma il permesso di soggiorno che vi deve dare la polizia, chiaro? […] I lavoratori stranieri sprovvisti di questa assicurazione saranno respinti alla frontiera».
Comunque, sono troppi… E allora, può capitare talvolta che la gente non ne possa più. Così, ecco che si scatena «una vera caccia all’uomo». Come quella volta (era il mese di agosto), quando gli immigrati furono inseguiti, braccati, percossi e uccisi. «Centocinquanta, sorpresi sul lavoro ed assediati in una capanna, furono forzati a rientrare in città; durante il tragitto furono feriti e g[e]ttati in [un] canale dove 20 o 30 morirono, i più, sbandatisi, furono inseguiti per le campagne; 40 soli si ridussero in città, sempre accompagnati da una folla ubbriaca. Furono chiusi in un torrione e quivi assediati. Altri 150 che si trovavano in città furono del pari assaliti. ». Sui muri della città potevi leggere le scritte «Morte [agli immigrati]! Facciamone salsicce!»
Del resto, lavoro, nel loro Paese, non ce n’è… Sono stati mandati «oltre mare a tagliare istmi, a forare monti, ad alzar terrapieni, a gettar moli, a scavar carbone, a scentar selve, a dissodare campi, a iniziare culture, a erigere edifizi, ad animare officine, a raccoglier sale, a scalpellar pietre; a fare tutto ciò che è più difficile e faticoso, e tutto ciò che è più umile e perciò più difficile ancora: ad aprire vie nell’inaccessibile, a costruire città, dove era la selva vergine, a piantar pometi, agrumeti, vigneti, dove era il deserto; e a pulire scarpe al canto della strada. Il mondo li [ha] presi a opra, [questi lavoratori]; e più ne [ha] bisogno, meno mostra[…] di averne, e li paga[…] poco e li tratta[…] male […].[Sono] diventati un po’ come i negri, in America […]; e come i negri ogni tanto [sono] messi fuori della legge e della umanità, si lincia[…]no».
In qualche caso, nel paese d’origine, vengono istituiti uffici con il compito di aiutare e sostenere il lavoratore costretto a partire. Nel corso di un Convegno internazionale «pro emigranti», così si espresse un paladino di questi disperati:
«Noi difenderemo l’emigrante, lo sottrarremo allo sfruttamento, lo eleveremo intellettualmente e moralmente, per un patriottismo sano, profondo, vero, non saturo di rettorica, per quel patriottismo che dovrebbe render noi tutti vergognosi delle migliaia e migliaia di lavoratori che portano all’estero il loro analfabetismo […] e l’abbietta superstiziosa che la patria non ha saputo strappare dai loro cervelli».
Ma noi sappiamo bene che il movimento di uomini e donne che abbandonano la loro terra, affrontano mille pericoli per approdare in luoghi inospitali, non si fermerà. E continueremo a leggere il loro lamento, su qualche foglio volante, in qualche pagina di libro. Come la lettera di un gruppo di emigranti, che, con toni semplici e ingenui, abbiamo trovato su un giornale di molto tempo fa:
«Ecco dei cuori straziati mille volte: siamo emigranti dobbiamo come tante rondinelle partire dal luogo tanto caro, nell’aprile quando tutto torna soave e bello, quando il profumo dei fiori tutto inodora, e i prati e i boschi si rivestono del colore primaverile, insomma quando tutto rinvigorisce nel bel momento che la terra si risveglia dal suo sonno invernale; il cuore straziato deve tacere in noi; non c’è fiori, né divertimenti, in noi vive solo il pensiero, la lontananza degli esseri più cari e l’idea delle economie».
Forse, l’immagine idilliaca che questi disgraziati hanno elaborato dei luoghi che si sono lasciati dietro le spalle è anche il frutto della pessima accoglienza di cui spesso fanno esperienza. Può capitare, infatti, che nei luoghi di destinazione un manifesto incollato su un muro li rappresenti come dei «voraci e repellenti topi», pericolosi perché rubano il lavoro e perché, con la loro «invasione», rischiano di minare le basi sociali e culturali della società ospitante.
Nota bene:
Il soggetto o l’oggetto ricorrente nel testo che avete appena letto (insomma, il migrante di cui si parla) è sempre e solo l’italiano. Tutte le citazioni, infatti, si riferiscono alla lunga storia della emigrazione italiana, che, dalla seconda metà dell’Ottocento, si trascina in modi e forme diversi sino ai nostri giorni. I testi da cui abbiamo estratti i brani virgolettati richiamano episodi drammatici (come la strage di lavoratori italiani a Aigues-Mortes del 1893 o il ricorrente linciaggio di italiani negli Stati Uniti) o evocano scene e stereotipi che da sempre si accompagnano all’esperienza della emigrazione. Anche della nostra, che non abbiamo più voglia di ricordare.
I passi citati sono, nell’ordine, tratti da:
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