L’estate si annuncia più torrida del solito. Gli anziani con qualche acciacco come me sono costretti alla pigrizia e all’indolenza forzate, sola risposta possibile alla liquefazione della volontà. Ma nonostante la calura i più possono fruire delle migliori opportunità dei mesi estivi: quelle offerte dall’otium e dalla flȃnerie.
La nozione corrente di ozio – lo stato di inattività che nascerebbe dall’indolenza, dalla pigrizia e dalla svogliatezza – ha deformato il senso originario del latino otium. Il proverbiale padre dei vizi era per gli antichi l’incubatore di numerose virtù. I latini, come i greci, distinguevano la gratuità e l’indipendenza da fini pratici immediati propria dell’otium dal labor, l’erogazione di fatica dei subordinati, dall’ars, tipica degli artigiani, dall’officium, le responsabilità pubbliche, e dal negotium, le attività finalizzate a un qualunque guadagno, significativamente definibili solo in quanto negazioni dell’otium, il solo agire pieno e autenticamente nostro.
Il termine greco equivalente, σχολή, indicava un tempo attivo e disinteressato destinato a noi stessi in piena autonomia e libertà; il tempo per sé, il più nobile e pregiato, al di fuori e al di sopra dei doveri e delle costrizioni che caratterizzavano il lavoro e, per i ceti superiori, gli impegni pubblici. L’attività creativa – la cultura – superava di gran lunga in pregio e apprezzamento sociale quella applicativa – il manufatto.
Il termine italiano scuola è nato da quel termine greco, e per molti secoli ne ha raccolto il significato. La formazione è tempo dedicato a sé, tempo disinteressato, senza scopi immediati e perciò portatore e suscitatore di libertà, essendo l’ignoranza – e la rozzezza che le si associa – la peggiore di tutte le catene. La conoscenza non finalizzata, il sapere per il sapere, era il tratto distintivo degli uomini liberi. È evidente la matrice dualistica sottintesa a questa concezione: i liberi, i pochi privilegiati, erano i soli allora a potersi permettere un simile lusso; gli altri, i subalterni, non necessitavano di formazione, conoscenza e libertà.
Quel prodotto evolutivo, per nulla statico, che chiamiamo tradizione è il deposito di esperienze millenarie, la fonte dalla quale attingiamo le eredità migliori delle vite passate. Non a caso la σχολή come formazione è rimasta operante fino a un secolo fa, ricevendo nuovo impulso proprio dalle battaglie per estendere il diritto di tutti alla formazione (non trivialmente all’istruzione, si badi), indipendentemente dalle provenienze sociali e dai ruoli che si sarebbero assunti. L’istruzione rendeva liberi solo in quanto organica e circolare. In più, la formazione era continua: durava tutta la vita ed era per tutta la vita. Platone da vecchio ammetteva di non aver ancora imparato a filosofare, di non aver esaurito il suo percorso alla ricerca della saggezza. Diversamente dagli antichi, l’intollerabilità del privilegio ha imposto a tutti di guadagnarsi da vivere, ma ha altresì via via esteso a tutti il diritto alla formazione. L’antica scala di valori è andata lentamente distrutta dall’imporsi di una visione pragmatista e utilitarista che privilegia l’istruzione alla formazione, l’apprendere applicativo alla libertà e gratuità di quel sapere per il sapere che è in verità il solo a poter fondare, giustificare, consentire poi anche il buon uso del saper fare. Il bilancio è negativo. L’impoverimento collettivo causato dalla vertiginosa dequalificazione dei sistemi formativi, dalle scuole di base fino alle università, mostra come la perdita sia stata sostituita, in confronto, da un pugno di mosche.
Questa deriva relativamente recente ha le sue radici remote nello smarrimento del valore positivo dell’otium. Nei canoni correnti l’ozio equivale a perdita di tempo, a improduttività. «Il tempo è denaro»: non producendo, chi lo spreca dissipa e si dissipa. Non intendo certo negare che nel lavoro sia contenuto qualcosa di nobile, o che l’etica del lavoro sia un principio di convivenza tra i più elevati (e più disattesi…). Ma l’homo faber non è senza l’homo sapiens, e viceversa. E a questi due poli dovremmo aggiungerne un terzo, l’homo ludens consacrato dall’omonimo saggio di un grande storico olandese della cultura, Anton Huizinga, certamente criticabile dagli antropologi specialisti (un po’ come gli altrettanto celebri Ramo d’oro di Frazer e Totem e tabú di Freud), ma potentissimo nel mostrare come molte civiltà del passato – dall’America settentrionale agli arcipelaghi dell’Asia orientale e dell’Oceania – abbiano dissipato (secondo i canoni correnti) gran parte delle risorse in una competizione al rialzo, ludico-rituale, nel dono reciproco.
Già sapete che il compito più elementare della filosofia consiste nel rovesciare i punti di vista, come se fossero calzini, se non altro per saggiare e vagliare quelli dominanti. Proviamo allora a ribaltare l’antico apologo che vanta le virtù delle formiche di contro alle cicale: operose e accumulatrici le prime, canterine e dissipatrici le seconde. Ma chi altro può illuminare e riscattare la grigia, opaca e vischiosa vita della formiche, sempre a testa bassa, tutte in fila, incapaci di guardare il cielo, se non il canto ispiratore e disvelante delle cicale? Se i valori veri siano da cercarsi in una buona vita anziché in una vita consacrata alla produzione ma desolante e infelice, non hanno forse da insegnarci di più le cicale che non le formiche? Ma chi l’ha detto che accumulazione e buona vita debbano coincidere? E l’ideologia del successo non produce forse guasti umani e danni sociali peggiori di un fallimento gioioso? Il tempo è la nostra risorsa migliore. Perché non dovremmo farne buon uso anche in senso creativo, come espansione di noi stessi? L’ossessione produttivista non migliora la qualità del nostro vivere. Con le parole di J.S. Mill (e se lo diceva lui, il teorico dell’utilitarismo morale, c’è da crederci), «è meglio un Socrate infelice di un maiale soddisfatto».
Homo sapiens, faber e ludens non hanno mai trovato un punto d’equilibrio, una sintesi piena ai livelli più alti; né potrebbero. «L’uomo del Rinascimento», poliedrico e multiforme, è un mito filosofico. Il buon uso del tempo può però supplire, diluendo o alternando linearmente, le nostre esperienze di vita e i loro obiettivi. Nell’Ideologia tedesca il giovane Marx descriveva il tempo liberato dalla rigida divisione sociale del lavoro come la facoltà di essere ogni giorno produttori quanto basta per essere anche oggi artigiani, domani pescatori, dopodomani «critici critici», ciascuno secondo le proprie inclinazioni. Non è un’idea poi così peregrina. Ha poca importanza che sia inattuabile come ordinamento sociale. Conta che ognuno possa dedicarsi non solo al lavoro elettivo, ma altresì ad attività «diversamente produttive» ma parimenti elettive.
La parola «vacanza» ha valore privativo: è un tempo svuotato di obblighi, ma che va riempito con le nostre migliori inclinazioni e attitudini, ad esempio per assaporare quel tanto che non abbiamo potuto essere, o che non possiamo essere ordinariamente. Non semplicemente «tempo libero», disperso senza uno scopo che non sia il suo semplice trascorrere per farci divertire (de-vertere) indirizzandoci dall’ordinario verso l’altrove e intanto restituirci le energie pretese dal lavoro. Tempo prezioso, invece, e intenso, meglio se rivolto a una pluralità di fini e soddisfazioni che normalmente non possiamo esaudire: l’oblatività verso gli altri; la formazione e la cura di noi stessi; l’amicalità; l’affabulazione; gli affetti; la cura di quanto ci circonda; la curiosità. E soprattutto tempo anche da perdere abbandonandoci alle suggestioni che le circostanze ci offrono senza inseguirle o provocarle. L’arte di perdere tempo, credetemi, è infinitamente più gratificante di quella di guadagnarlo. O volete somigliare a quegli isterici barbarizzati che ci strombazzano da dietro se non scattiamo come Ayrton Senna una frazione di secondo prima che il semaforo divenga verde? Perdere tempo è una sapienza civilizzatrice; ostinarsi a guadagnarlo è una necrosi dello spirito.
Non vi è tempo migliore dell’estate, ad esempio, per fare i flȃneurs, i bighelloni perditempo che si abbandonano ai richiami e alle seduzioni di una città che esplorano con lievità, in punta di piedi, a cominciare dalla propria, senza bulimie esistenziali, bensì per il puro piacere di scoprire altri punti di osservazione, scorci mai notati, l’avvicendarsi dei costumi, lo stupore delle architetture, e intanto – nel mentre ci svuotiamo e depuriamo dei troppi e troppo distorsivi rumori del tempo destinato a produrre e riprodurci (incluso lo svago) – aprirci a riflessioni frammentarie, sollecitate da visioni inedite, da suoni inauditi, da fragranze ignote. In verità dovremmo abbandonarci alla flȃnerie ogni giorno, senza bisogno di portar fuori il cane. Ma siamo sempre affaccendati, non abbiamo tempo da perdere, nemmeno quando ci vogliamo de-vertere, e anche il cane dopo un po’ diventa qualcosa di scontato…
Consentitemi di augurarvi delle vacanze buone, anziché la consueta, e in sé sorda, «buona vacanza».
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