Dopo i primi entusiasmi per il percorso virtuoso del PD varesino, che in preparazione anticipata delle elezioni comunali 2016 ha iniziato a elaborare il programma un anno e mezzo prima, ecco che pian piano l’opinione pubblica di centrosinistra a Varese si è ributtata sul tradizionale dibattito di contemplazione dell’ombelico e sdegnoso disgusto per tutto quello che cercano di combinare in via Monterosa. Come sempre sono i social network il termometro dell’accidiosa febbre, con cui si rinnova il tiro al bersaglio sulla dirigenza democratica varesina e le sue caute mosse per districarsi tra le opzioni di alleanze possibili. Sinistra radicale, rifondatori civici, NCD, perfino segnali di fumo dai forzitalioti sopravvissuti alla tempesta salviniana, che spazza via il moderatismo destrorso? Si può capire il ritegno diplomatico con cui la segreteria cerca di accreditare presso i mass-media l’idea che tra le varie forze politiche disposte a fare coalizione con il PD non via siano voragini di divisione, ma avvallamenti più o meno colmabili con “ponti” o “bretelle” di pur discutibile stabilità.
Certo la conciliazione degli opposti non rientra nei poteri di una segreteria politica, e la scelta tra alleati di sinistra, compresi i gruppi civici, e alleati di destra dovrà pur esser fatta con tempestività, se davvero il PD intende tenere le elezioni primarie per selezionare il candidato-sindaco. Ma che i contatti richiedano una fase negoziale laboriosa è segno di serietà, non di amletica inettitudine. Come anche non ha aiutato l’anomalo ritiro dalla competizione del candidato potenzialmente più forte, Daniele Marantelli, emblema storico della sinistra varesina ed oggi dinamico parlamentare in servizio permanente effettivo, area Giovani Turchi o meglio Rifare l’Italia, ma così accreditato tra tutti i deputati democrat da aver ricevuto da poco il delicato incarico di tesoriere del Gruppo PD alla Camera.
Anche su questo sparano i social, considerandolo la riprova che il PD varesino proprio non vuole vincere, se – pur non essendosi mai sognato d’osteggiarlo come non più giovane e superato – non si dispone a tributare tutti gli onori d’investitura unanime sine glossa a Marantelli e – trascurandone meriti e allure, quasi degradandolo a comune mortale – lo offende al punto da costringerlo a partecipare alle Primarie per conquistarsi la candidatura. Trascurando il fatto che i più recenti rumors parlano di un ripensamento dell’interessato e di una sua subentrata disponibilità a scendere in partita per misurarsi coi competitors, e così dando ragione alla serena tenacia della segreteria nel preferire la gara al plebiscito.
Vero è che oggi Primarie varesine senza Marantelli rischiano d’esser derubricate dai media locali a corsa nei sacchi da sagra di periferia. Come anche che tornare al comune dopo tanti anni, retrocedendo dal livello nazionale a quello locale, non può che essere considerato un sacrificio, segno di dedizione ideale alla causa del partito, e quindi riprova del valore del partito stesso e della buona causa della mira al governo della città. Perciò la sua partecipazione sarebbe non solo di sollievo per il contrasto interno rientrato, ma soprattutto di vanto e beneficio per tutti, compresi i concorrenti, tra i quali già De Simone, il giovane candidato alternativo sinora più sicuro di gareggiare, s’è affrettato a dichiarare “un onore” la sfida che potrebbe avviarsi. E c’è da augurarsi che analoga motivazione convinca gli altri aspiranti, sia manifesti sia latenti, a confermare l’intento di partecipare.
Ecco allora che, di fronte a questa prospettiva, la contestazione nei social riprende vigorosa, sino a denunciare come nemmeno Marantelli costituirebbe un candidato forte e vincente, e come quindi il PD varesino non sia capace d’esprimere figure di assoluto rilievo per consentire il rilancio della città. Qui il dibattito divide chi punta tutto sull’ulteriore ricerca del candidato carismatico da chi punta tutto sul programma per sopperire all’inevitabilità della modestia delle candidature. La maggiore insistenza dei primi è a convincere Giuseppe Adamoli, prestigioso esponente storico dei cattolici democratici in straordinaria forma fisica e intellettuale ma che ha sempre invocato l’età per motivare la sua rinuncia irrevocabile, invitando a considerare altre figure in campo a partire dal grande valore riconosciuto a Marantelli.
Ma non mancano i secondi che enfatizzano la carenza programmatica PD, trascurando totalmente – e probabilmente ignorando per sprezzo snob, con poche eccezioni – il percorso programmatico che aveva imposto il PD all’attenzione dei media. E ciò che unisce i secondi ai primi è la paradossale certezza che solo la Lega può permettersi di candidare un carneade qualsiasi e di non avere uno straccio di programma, mentre il centrosinistra non può farne a meno. Soccorre infine qualche ipercritico più snob degli altri a sostenere che, tanto, il programma non lo legge nessuno tranne pochi addetti ai lavori. Ma alla fine come fa la gente a votare? E come ha fatto la Lega a vincere per vent’anni?
Un ping-pong concettuale che sconcerta per il suo platonico svolgersi nel beato mondo delle idee. In quello reale, invece, la gente vota per legami di sostanza con i partiti che si candidano a raccoglierne il consenso, sia nella tradizionale forma del “voto di appartenenza” che in quella più recente del “voto di opinione”. Prevalendo nettamente nel secolo scorso, il voto di appartenenza è ancorato al passato dei mondi vitali e dell’identificazione culturale dei cittadini con la classe sociale di appartenenza, con gli interessi economici acquisiti e prospettati, con le esperienze relazionali e sociali vissute, con le mobilitazioni sperimentate per obiettivi sia ideali sia pratici. Storicamente, mondo socialcomunista legato alle lotte partigiane e poi alle esperienze operaie e sindacali e alla rete di cooperative di produzione e consumo, abitative e case popolari, circoli ricreativi, sezioni di partito, mezzi di comunicazione d’area, presenza intellettuale nelle scuole e nelle università, ha mantenuto legami valoriali e organizzativi con i partiti di sinistra. Mentre il mondo cattolico con la rete delle parrocchie, i movimenti d’ambiente, analoghe esperienze sindacali, cooperative, di radicamento territoriale di partito, di affiliazione di canali di comunicazione e di presenza scolastica e universitaria, ha promosso la crescita e il successo dei partiti di centro. Entrambi i mondi hanno costituito la base di consenso dei principali partiti di massa, DC e PSI-PCI, garantita nel tempo indipendentemente dai comportamenti dei partiti di riferimento, pregiudizialmente assolti dai difetti e sempre premiati dei meriti, saldi nell’identità ideologica grazie anche al quadro politico di riferimento internazionale finché durava la Guerra Fredda.
Il voto di appartenenza è andato però declinando dopo la caduta del Muro di Berlino, che ha consacrato l’evoluzione della società italiana verso il benessere prima e verso l’opulenza consumistica poi. Le ragioni di classe sono sfumate nell’articolazione sempre più complessa delle identità sociali e professionali ed è andato sempre più crescendo il voto di opinione, che giudica i partiti non per identificazione ma per comportamenti su programmi di massima, con fortissima influenza dei mass-media. Di qui l’esplosione e la scomparsa dei partiti della Prima Repubblica a seguito del movimento di opinione: a sinistra per la delegittimazione ideologica della caduta dei regimi di socialismo reale nell’est Europa; al centro per gli scandali delle inchieste giudiziarie tipo Mani Pulite. Così il voto di opinione, tipico sino ad allora dei partiti elitari di centro e di destra, è andato allargandosi ai nuovi partiti di massa formatisi a sinistra e al centro, ricostruito in legame organico con la destra, non senza favorire la frammentazione in vari partitini grazie al sistema elettorale proporzionale.
Ed è in quella fase che è nata la Lega, poggiandosi sia su voti di appartenenza sia su voti di opinione. Se inizialmente l’appartenenza era quella stessa del mondo cattolico in versione localista, successivamente è andata riformandosi con una ideologia spuria di “piccola patria”, fatta più di istinti che di esperienze fondative e formative; mentre il voto di opinione è stato catturato grazie alla collocazione sociale a favore delle classi dei lavoratori autonomi e politica a favore del liberismo in economia. Ma la chiave per la cattura ed il consolidamento di quel voto è nella capacità di mobilitazione che ragioni di nuova appartenenza e ragioni di opinione hanno ottenuto nei militanti leghisti, sia alla base sia al vertice, reinventando forme di comunicazione popolare, dai manifesti ai gadget sino ai grandi raduni. Solo di recente è diventato preponderante l’aspetto di opinione, sia nella discesa agli inferi con gli scandali della famiglia Bossi sia nella prepotente rinascita con il programma-slogan di Salvini, tutto incentrato sul rifiuto dell’euro e dei migranti. Ma anche qui il messaggio si fonda e contemporaneamente rifonda l’appartenenza, da un lato rilanciando il valore delle relazioni primarie come “piccola patria” (“padroni a casa nostra”, dove la casa è proprio quella domestica) e dall’altro enfatizzando le paure inconsce degli appartenenti alle “piccole patrie” nei confronti di tutto ciò che è diverso e straniero: migranti ed euro, in quanto ribattezzato tedesco. E nel contempo la mobilitazione si è ancora di più allargata, con la presenza continua di Salvini non solo sulle televisioni ma anche e soprattutto sul territorio in occasione di eventi elettorali: dalle piazze ai mercati rionali, ai campi nomadi, ai centri di accoglienza, alle tabaccherie o ai distributori rapinati ecc.
Come si fa allora a dire che la Lega non ha né candidati né programmi? Vince esattamente perché li ha. Vince come a Saronno perché ha candidati modesti e popolareschi, con cui è più facile per l’elettorato popolare identificarsi e rivivere l’appartenenza alla piccola patria, sospinti dal traino di Salvini che trionfa tra i selfies al mercato rionale; e che attraggono l’opinione di destra per gli slogan facili da capire e fortemente avversi al governo di centrosinistra, lasciando le elites liberali al loro minoritario destino di irrilevanza numerica. Hanno vinto come a Varese, sia con candidati alla Fumagalli sia con candidati alla Fassa e alla Fontana, dove il partito attrae l’elettorato popolare ed il candidato le elites liberali e i mass-media politically correct. Ma soprattutto hanno vinto con la mobilitazione dei militanti, su cui si è incardinato il traino dei leader.
Al PD e al centrosinistra sta l’onere di capire che candidato e programma sono nulla senza la mobilitazione dei militanti, senza la capacità di farsi gente tra la gente a sostenere le proprie ragioni e cercare di convincere chi voterà. Altrimenti non ce la farebbe non solo Marantelli o chi per esso vincerà le Primarie, ma neppure Papa Francesco.
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