In questa torrida estate del 2015, a contatto ogni giorno con il coro delle lamentele, altrui e non solo, sull’impossibilità di sopportare l’ondata di afa (ma davvero è da 136 anni che non si incontrava una simile temperatura?), mi sono fatta l’idea che stiamo raggiungendo livelli di insofferenza molto elevati, più pesanti dell’afa stessa.
E proprio in questo anno nel quale, celebrando la Grande Guerra, vediamo scorrere immagini di sofferenze terribili, fame, freddo, logoramento, sfinimento, vissuti da giovani mandati a combattere in condizioni inenarrabili. Tanti sono stati i morti, ma tanti anche i sopravvissuti. Che dire di chi è cresciuto tra carestie, marce forzate, campi di concentramento? Condizioni estreme? Certo, ma anche la vita dei nostri avi, riportata nei documenti storici e narrata dalla letteratura, non è stata una passeggiata: esistenze di duro lavoro in condizioni difficili, tra denutrizione e malattie ma al tempo stesso vite dignitose e ricche spiritualmente.
Oggi ci ritroviamo invece sempre meno capaci di “sopportare”. Sopportare il caldo, il freddo, la sensazione della fame, le code, le attese, la fatica del lavoro, la vicinanza alla sofferenza e alla morte; ci stressa la privazione di piccoli, medi e grandi beni materiali di cui vorremmo essere riforniti. Reggiamo malvolentieri l’idea di non essere in vacanza mentre altri lo sono, o di dover fare a meno, per le motivazioni più varie, di tante cose, spesso inutili, ma che ci sembrano necessarie.
In questa torrida estate mi è tornata alla mente la parola resilienza con cui ero entrata in contatto anni or sono, un concetto di recente fatto proprio dalla pedagogia e dalla psicologia.
Resilienti vengono definiti i bambini di strada delle favelas e delle periferie delle megalopoli, minori abbandonati che affrontano la vita da soli o in bande di coetanei.
Non resiliente sarà nella vita, forse, il bambino il cui padre, d’autorità, lo ha esentato dai compiti delle vacanze ritenuti troppo faticosi, e ha comunicato il proprio dissenso alla carta stampata nazionale.
Resilienti sono le donne che attraversano il deserto al seguito dei mercanti di schiavi e degli scafisti e poi hanno la forza di ricominciare un’altra vita in un nuovo mondo.
Resilienti i soldati di ogni guerra e di ogni tempo, anche se non tutti e non sempre.
Non resiliente lo studente incapace di reggere una notte di studio per prepararsi agli esami.
Resiliente è il piccolo Daniel, il bambino filippino di cui ho parlato qualche tempo fa, senza casa e senza mezzi, che studia sul marciapiede dove trovano posto i cartoni del suo rifugio, alla luce dei lampioni.
E noi, occidentali dei paesi ricchi, sempre meno abituati ad affrontare le difficoltà, come possiamo diventare resilienti? Magari cominciando a sopportare il caldo straordinario di quest’anno. Che, in una ordinaria esistenza, è un problema di normale portata, se messo a confronto con le difficoltà sopportate e superate dall’umanità nel corso dei millenni. Poiché è dalle epoche più remote che gli esseri umani si sono distinti per la capacità di sopravvivere a ogni sorta di difficoltà, come disastri naturali, guerre, carestie o malattie. Ciò è stato possibile perché “programmati” per resistere alle diverse situazioni, per superarle, o per imparare a conviverci quotidianamente. Gli studiosi affermano che è la capacità di combattere per rialzarsi più forti di prima, e non invece la fragilità, la regola che governa il mondo.
Ecco qualche indicazione per diventare resilienti, secondo gli psicologi che hanno studiato il fenomeno: gli individui maggiormente portati alla resilienza sono persone di un buon temperamento, sensibili, autonome, abili nel comunicare con gli altri esseri, in possesso di un buon autocontrollo, di una robusta dose di consapevolezza e di altrettanta fiducia nelle proprie capacità, benvoluti dal prossimo perché attenti alle altrui esigenze.
E dunque, buone vacanze, resistendo alla torrida estate.
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