EXPO, finalmente, dopo tante chiacchiere e polemiche, vista di persona. Una prima impressione, perché nell’arco di poco più di cinque ore, quanto concesso dai diversi impegni di Sebastiano e Onirio, con cui l’ho visitata, non si può ricavare. Per di più, la presenza del figlio di Onirio, che lavora in Africa, ci ha indotti a privilegiare nella visita i padiglioni africani, rimandando ad altra occasione quelli dei principali stati europei, Italia inclusa.
Procediamo per capitoli.
Infrastrutture. Sembrano sufficienti, in qualche caso ridondanti. Le più grandi e costose, come le autostrade Pedemontana, Brebemi e Tangenziale est esterna sono state realizzate anche per la spinta di Expo. Risolvono problemi di traffico, soprattutto futuri, dell’area milanese e potranno dare sviluppo alle aree interessate, ma con Expo non c’entrano per nulla. Più utile e anche molto più attesa è la parte della tangenziale Nord, Rho-Monza, che è stata finalmente raddoppiata e completata di svincoli. Mi rimane assolutamente misteriosa l’utilità dei megaviadotti a ridosso dell’area espositiva: nelle decine di volte in cui sono passato in autostrada ho visto solo il passaggio di un unico solitario tassì. Serviranno dopo? Ora non li usano nemmeno le navette che portano in Expo gli automobilisti che parcheggiano ad Arese. Così abbiamo fatto anche noi. Arrivati in auto, per l’ipotesi che servisse al figlio di Onirio per recarsi a dormire da un amico di Milano, ci siamo sentiti sperduti nell’immenso parcheggio vuoto, nonostante fosse già quasi mezzogiorno. Qualche straniero di passaggio, una ventina di camper, qualcuno che come noi aveva una necessità specifica. Vengono in treno e in metrò, ci siamo detti. L’esperienza ci ha dato anche un’altra spiegazione, oltre al costo: l’attesa di parecchi minuti sotto il sole, che quel giorno non scherzava, e la lunghezza del tragitto, almeno venti minuti per un parcheggio che uno s’immagina di prossimità. Infatti la navetta non utilizza i famosi viadotti, ma arriva fin quasi a viale Certosa, per infilarsi in un dedalo di viuzze che portano all’ingresso di Roserio, esattamente dalla parte opposta all’ingresso principale, dove sarebbe logico iniziare la visita. Pare che ferrovia e metrò siano più funzionali, con il metrò che si sovraccarica solo al momento della chiusura serale, quando c’è l’esodo generale.
Sito. L’impianto da accampamento romano, decumano più cardo, più traverse, lo rende scheletrico e privilegia ovviamente le posizioni centrali e quelle prossime all’ingresso principale. Complice il caldo, non è stato piacevole aggirarsi per i padiglioni laterali, per strade infuocate e deserte, minimamente ombreggiate. Le alte tende fanno ombra solo al decumano, richiamo inevitabile per i meno avventurosi e per gli sponsor commerciali, che lo hanno disseminato di baretti, cafferini e di macchinario per fitness (?). Si rafforza l’impressione che sia un lunapark, dove però le attrazioni mancano, o sono, per me, ancora da scoprire. Si nota la mancanza di un simbolo, il famoso Landmark, eliminato per ragione di costi, ma soprattutto di un’attrazione, non potendo considerarsi tale lo spettacolo del Cirque du Soleil, attivo solo la sera e funzionale più alla movida milanese che al visitatore interessato al tema dell’EXPO.
Tema. Ricordiamolo: “Nutrire il pianeta. Energia per la vita.” Il padiglione Zero dovrebbe declinarlo in modo completo ed efficace: lo fa in buona misura, ma mi sarei immaginato un approccio più coinvolgente, uno spettacolo, piuttosto che un sussidiario di quinta elementare, sia pure multimediale. Vero è che sapevo già dalla visita all’esposizione di Saragozza che i temi culturali vanno declinati per quel livello cognitivo, per essere alla portata di tutti, come del resto sanno e fanno i media di tutto il mondo. Infatti non discuto sulla semplificazione dei contenuti, che evitano felicemente il rischio di affermazioni, pregiudiziali, unilaterali o cervellotiche, ma sulla forza comunicativa, non bastando i filmati didascalici a catturare l’attenzione del visitatore più di quanto non fanno, ormai, i musei di scienze naturali.
Le diversità e il dialogo dovrebbero emergere dai padiglioni nazionali e dai cluster tematici. Qui il mio giudizio si fa prudente, occorrerebbe averli visti tutti, non solo un decimo, o meno, come ho potuto fare. Di botto direi che è questione di soldi. Chi ha potuto e voluto investire ha presentato contenuti articolati, visioni interessanti e complete del Paese. Do subito merito a Qatar, Angola e Marocco, tre realtà diverse, anche per possibilità economiche e di ritorno dell’investimento in termini di turismo. Stupisce in positivo soprattutto l’Angola. È vero, come ci ha spiegato il figlio di Onirio, che si tratta di un Paese esportatore di petrolio e di gas, ma più che la ricchezza dell’investimento, mi ha colpito la completezza del discorso sul tema agricolo, la coscienza di una storia millenaria e insieme di una contemporaneità non subalterna ala cultura d’importazione. Esempio significativo: la presenza nel padiglione di due mostre d’arte contemporanea. Invece potevano fare di meglio i cluster tematici, dove tutti, sia nella parte generale, sia negli spazi riservati ai singoli Paesi, sembrano aver giocato al risparmio. Ovviamente non è carino fare nomi, ma tanti, troppi e non solo i Paesi Africani con problemi di sopravvivenza, si sono limitati ad arredare una stanzetta con qualche bandiera, qualche poster, modesti oggetti di artigianato, un televisore sintonizzato su paesaggi esotici e una vendita di scatolette di prodotti locali e di chincaglierie da bazar. Non so se sia mancato l’aiuto degli organizzatori nel declinare il tema collegandolo alle specificità del singolo Paese o l’impegno culturale, prima che economico di questi ultimi. La considerazione finale è che proprio i più piccoli e marginali dovevano essere messi nella possibilità di far conoscere e di rivendicare la propria originalità, le proprie radici e di gettare uno sguardo sul futuro, sollecitando la collaborazione, pur interessata, dei Paesi più sviluppati.
Bellezza. Le cose più belle che può offrire Milano non stanno all’EXPO. Era ovvio! Mica si poteva spostare il Cenacolo. Ma il grande e paradossale Tintoretto del padiglione Vaticano, vale una visita da solo. Anche qui l’incompletezza della visita fa grazia al giudizio che potrebbe essere sommario. Però da grandi potenze economiche e culturali come Cina e Brasile mi aspettavo di meglio, che non ripetere di essere i primi, i più grossi in questo o in quell’altro settore agricolo. Se poi fosse vero come sostiene uno degli amici del figlio di Onirio, che, fotografando casualmente col telefonino il gioco di luci led del padiglione cinese,vi ha riconosciuto il volto di Mao, proposto in modo subliminale… Fanno discutere gli interventi artistici dello scenografo-scultore Ferretti, le statue para arcimboldiane dell’ingresso e le installazioni-mercatino che tratteggiano il decumano. A molti piacciono, a me no. L’ironia arcimboldiana è irripetibile in un contesto totalmente diverso e le installazioni iperrealiste sembravano davvero bancarelle del mercato… è questo che si voleva ottenere?
Gente e linguaggio. Questo è il giudizio su cui mi sento più sicuro ed è purtroppo ormai irrimediabile. Manca un linguaggio comune. È la conseguenza di quanto esposto sopra. O forse ne è la causa. L’organizzazione, afflitta fin dall’inizio da problemi politici, economici e tecnici, non vi ha messo la testa. Non si tratta solo di avere informazioni più chiare e più abbondanti o di averle nella propria lingua. Sette anni fa, reduce da Saragozza, immaginavo legioni di volontari, dotati di adeguati strumenti linguistici e informatici, fungere da accompagnatori e da stimolatori dei visitatori. Mi sembrava indispensabile che non si fosse abbandonati al caso o alla superficialità di un interesse per ‘sentito dire’. Di certo non basta la paginetta del quotidiano che sintetizza che cosa accade oggi all’Expo. Sento già l’obiezione: avresti voluto una cosa come il Meeting di Rimini! Ebbene sì, anzi molto di più, perché questa sarebbe stata un’occasione unica di dialogo, che per l’Italia si ripresenterà forse tra cent’anni. Anche se si va preparati, avendo letto qualcosa e immaginato un programma, ci si sente comunque persi in un labirinto casuale di proposte svariate e in fondo superficiali.
Ma questo invita a starsene a casa? Al contrario, ho fatto il biglietto stagionale, per poterci andare tutte le volte che posso, per visitare anche gli angoli più nascosti, per cercare incontri improbabili, magari solo per due chiacchiere nel mio stentato inglese, con africani ed asiatici e con chiunque abbia voglia di confrontarsi con questi grandi temi, senza dimenticare che ‘non di solo pane vive l’uomo’.
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