Quando Gesù predicava, riusciva a toccare il cuore di chi era in ascolto. La sua capacità di dire la verità e dì essere persuasivo riusciva a smuovere così in profondità l’animo della gente che quanti ascoltavano volevano ascoltare ancora, e ancora, senza limite di tempo.
Non importava nemmeno la distanza, la fatica del viaggio, i rischi del cammino. La cosa importante era assolutamente vederlo, ascoltarlo, toccarlo, senza neppure preoccuparsi di mangiare e di dormire. E Lui, vedendo quelle folle che accorrevano a lui, si commuoveva, perché “erano come pecore senza pastore”.
Anche oggi la sete di verità e di speranza, il bisogno di affetto e di perdono non hanno perso la loro intensità e la loro forza. I cristiani vogliono sentire la voce di Gesù, quando – per esempio – occupano piazza San Pietro per l’udienza del mercoledì o anche solo per l’Angelus della domenica.
Anche quelli che sembrano indifferenti, in realtà nascondono, sotto una pelle resa dura dalla superficialità di pastori e fedeli delle nostre comunità, un’abissale sete di verità, di libertà, di amore.
Questo bisogno di Dio dovrebbe spingerci tutti, nella Chiesa, a sentirci responsabili del gregge; è ora di uscire dalla propria tiepidezza per essere una viva trasparenza di Dio Padre, come è stato Gesù, che ha detto: “Chi vede me, vede il Padre”.
In questa grande sfida ogni compromesso è una sconfitta, perché sminuisce la forza della testimonianza e ci rende più simili ai mercenari, cioè a gente che cerca posizioni comode e interessi personali al posto del bene di tutti.
“Non mi preoccupa il grido dei violenti, dei corrotti, dei disonesti, di quelli senza etica… – ne era convinto Martin Luther King -. Quello che più mi preoccupa è il silenzio dei buoni”.
Alessandro Manzoni, da par suo, sosteneva: “Si dovrebbe pensare più a far bene che a stare bene: e così si finirebbe anche a star meglio”.
Un servizio che non può mancare nel rapporto pastore-gregge è quello del confessore nel momento in cui è ministro della riconciliazione.
Se vuol essere immagine viva della carità di Cristo, non può ridurre la celebrazione del sacramento ad un “colloquio informale” tra confessore e penitente: un colloquio in cui le componenti elettive e i sentimenti di umana amicizia, oppure certe improvvide interpretazioni psicologiche possono avere il sopravvento fino a oscurare la sacralità del gesto che si compie.
Ciò che risulta errato o pericoloso non è certo lo sforzo di comprensione e la ricerca di un sincero calore umano; è riduttiva una azione liturgica priva di quel carattere radicale che fa di un atto umano un segno ed un tramite della grazia di Dio.
In effetti tali colloqui informali rischiano di far sentire molto di più – se non proprio esclusivamente – la presenza e l’azione di un uomo invece della presenza e dell’azione di Cristo che, mediante il suo ministro, orienta il penitente a lasciarsi liberare dal suo peccato e ad aprirsi alla vita nuova e divina.
You must be logged in to post a comment Login