La “buona scuola” (così il presidente Renzi ha voluto chiamare la “sua” riforma della scuola) è divenuta legge e spetta a chiunque rispettarla e farla rispettare.
Il modificante-aggettivo “buona” – posto a sinistra, prima del sostantivo – denota le intenzioni di chi ha promosso la riforma, come ha ben evidenziato su queste pagine Margherita Giromini. Attendiamo ora che la riforma renda la scuola “buona”, dove il qualificante passa dalle intenzioni soggettive del premier agli obiettivi oggettivi che la riforma stessa dovrebbe raggiungere.
È lodevole che la “buona scuola” abbia invertito la sua politica finanziaria degli ultimi due decenni che ha penalizzato il settore dell’istruzione: è un cambio di rotta rispetto ad un sostanziale immobilismo che ha caratterizzato tutti i governi che si sono succeduti fino a Renzi. La scuola considerata in funzione subalterna e marginale rispetto ad altre esigenze è sempre un grosso rischio per la democrazia! Su questo fronte il decisionismo renziano ha sfondato, ma la fretta, accompagnata dalla mancanza di confronto con gli addetti al lavoro, può essere deleteria perché solo la riflessione, il dialogo, la ricerca comune possono infondere calore, convincere le menti e scuotere le volontà, valori essenziali per coinvolgere tutta la scuola nella sua riforma.
Mentre noi andiamo alla rincorsa di nuovi modelli e del nuovo per il nuovo, altrove si vive un processo preoccupato di riflessione che sembra dare un diverso rilievo alla nostra tradizione scolastica.
La “buona scuola” è solo una riforma strutturale, mentre le riforme della scuola da sempre e dappertutto hanno rappresentato un’ipotesi culturale che, beninteso, non devono imporre una particolare visione del mondo o una qualsiasi ortodossia.
La riforma renziana non s’inserisce in questo contesto storico-sociale, non descrive programmi e obiettivi, non espone contenuti, non indica percorsi metodologici, lascia intatto il sistema di valutazione. Lascia integra l’attuale “filosofia”, preferendo privilegiare transazioni ed equilibri di ordine pragmatico, economico e finanziario di tipo liberalistico.
La riforma si poggia su strutture organizzative, anziché su idee, dimenticando che la cultura, anche quella pluralistica, si fonda sulla base di un concetto riconoscibile della cultura stessa, non già sulla base di strutture amministrative.
A dominare la discussione parlamentare (si fa per dire, perché non abbiamo letto interventi rigorosi a tal proposito), ciò che ha vivacizzato gli interventi sui media, le tristi chiassate in piazza dei docenti vertevano su due punti: la figura del dirigente scolastico “manager” e l’assunzione in ruolo di un certo numero di precari, come se tra scuola e società, politica scolastica e lavoro, istruzione e futuro del paese non ci fosse una forte interdipendenza!
La “buona scuola”, dunque, non riforma niente. Lascia tutto com’è. Non mette un po’ di sale o lievito nel sistema divenuto troppo amorfo e scipito. L’emergenza educativa tanto decantata, la priorità misconosciuta dai governi, il problema di tutti i problemi si vogliono risolvere con la creazione del “manager” e con l’immissione in ruolo dei precari!
L’autonomia scolastica, nelle intenzioni del premier, avrebbe dovuto avvicinarci all’Europa. Non è vero. Lo dimostreremo con tre esempi (ma altri se ne potrebbero portare!) che si ispirano ad altrettanti sistemi scolastici europei: uno fortemente centralizzato (la Francia), uno fortemente decentralizzato (la Scozia) ed uno dipendente totalmente dalle regioni (i Lander) e solo armonizzato dalla conferenza dei ministri dell’istruzione delle regioni.
Dalla fine degli anni ’80 in Francia, paese celebre perché un ministro dell’educazione nazionale si vantava di poter controllare dal suo ufficio ministeriale tutto ciò che accadeva in qualsiasi momento della giornata scolastica in ogni scuola della Repubblica, si è dato inizio un ampio processo di decentralizzazione coinvolgendo le collettività territoriali, ciascuna delle quali concorre a pianificare i bisogni di formazione e di edilizia. Il garante rimane sempre il Ministero che, attraverso più di quattromila ispettori, controlla, sanziona o rinnova il mandato d’insegnamento ai docenti ispezionati.
Nella Scozia (più marcatamente degli altri paesi che compongono il Regno Unito: Inghilterra,Galles e Irlanda del Nord) negli stessi anni il governo locale, al fine di controllare la spesa e di dare omogeneità e qualità affidabili all’offerta educativa, stabilì programmi nazionali di studio, l’attuazione dei quali fu sottoposta al “School Board”, consiglio formato da genitori, insegnanti e rappresentanti delle comunità locali.
In Germania il federalismo scolastico ha una lunga tradizione costituzionale. Con la fine del nazismo, il principio federale offrì l’opportunità di prevenire l’emergere di un potere centrale aggressivo garantendo, al contempo, l’unità della nazione e il rispetto della diversità dei Lander. Il controllo dell’attività didattica e dei docenti spetta sempre ad ispettori federali.
In tutti e tre i sistemi scolastici esposti si evince che sono gli ispettori – e non i capi d’istituto – a controllare le capacità professionali dei docenti, mentre in Scozia la selezione ed il reclutamento dei docenti spettano ai dirigenti della scuola.
Con la “buona scuola” sembrerebbe (il condizionale è d’obbligo perché la legge è assai nebulosa!) che la selezione e il reclutamento di alcuni specifici docenti spetterebbe al “manager”, ma non il compito di vigilanza sui docenti? A chi spetterebbe? Gli ispettori sono scomparsi da tempo e quelli centrali sono ridotti a una quarantina per l’intero territorio nazionale. Come saranno reclutati i nuovi “manager”? Dovranno conoscere l’economia o la pedagogia o il diritto? Saremo costretti ad assistere, costernati, alla valutazione di un docente di greco da parte di un ex-direttore didattico?
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