Pochi giorni prima del termine delle lezioni un papà scrive al quotidiano “La Repubblica”: «Informo i docenti che mio figlio non svolgerà i compiti assegnati per le vacanze, come tutti i lavoratori ha “diritto al riposo e allo svago”: le vacanze sono degli studenti e non (solo) dei docenti, così potrà finalmente dedicarsi a occupazioni creative e ricreative. Voglio fare il genitore e non l’insegnante di complemento, il carceriere, l’aguzzino».
Mi colpiscono le parole, dure, di questo padre moderno, difensore, senza se e senza ma, del figlioletto, suppongo giovane scolaro della primaria.
Ma era proprio necessario comunicare al mondo dei lettori di un diffuso quotidiano la sua personale decisione? Ogni genitore è responsabile del proprio figlio minorenne. Chi non vuole studiare durante l’estate, lo può fare, dato che non esistono punizioni codificate per gli evasori dei compiti delle vacanze.
Mi sembra sopra le righe un genitore che ritiene di essere chiamato a svolgere un ruolo da aguzzino solo perché invita / spinge/ costringe/ ricorda al proprio figlio che nella sua vita esiste l’impegno scolastico; perché l’idea di scuola dovrebbe restare vivida anche d’estate, dato che è presente e determinante nei restanti nove mesi all’anno.
Poi, ma è solo il mio parere, aiutare un bambino o un ragazzo nell’esecuzione di esercizi, a volte noiosi ma utili, costituisce un bel modo, tra i tanti possibili, per passare del tempo proficuo insieme al proprio figlio. Capisco, può risultare fastidioso, nel bel mezzo di giochi e di corse sudate, mentre ci rilassiamo su una spiaggia dorata o ai bordi di una piscina, pensare a quel libro chiuso che aspetta di essere aperto e usato proprio da noi.
Se richiamare un bambino all’impegno di una pagina di lavoro ogni tanto è da aguzzino, se ne deduce che assegnare un’attività che sottrae qualche ora al gioco, al sole e alla luce dell’estate, come fa l’incauto insegnante, è da sadici.
Nella lettera il padre esclama che, “finalmente”, liberato dei compiti, il figlio potrà dedicarsi ad attività creative e ricreative. Lasciando intendere che la nostra scuola è il buio luogo di una didattica costrittiva, noiosa e opprimente.
Nel dibattito tra favorevoli e contrari si sono avvicendate altre lettere, alcune anche lievi e divertenti: perché non istituire un anno composto di “settimane con 6 giovedì e una domenica”, come nel Paese dei Balocchi? Un altro lettore dà ragione al suo professore di liceo che dichiarava: «I compiti per l’estate ve li do, anche se so che li svolgeranno quelli che potrebbero farne a meno».
Io da che parte sto? Io da quella di Daniel, piccolo filippino la cui foto, tenerissima, ha fatto il giro del mondo. Daniel che studia alla luce di un lampione, in mezzo alla strada, perché non ha luce elettrica dove vive lui, dietro il muro di un edifico, su un marciapiede. Senza una casa, e senza un papà, scopriremo poi, ci insegna che imparare è bello. Sempre.
Voglio cliccare “Mi piace”, come ci chiede la studentessa che la sera del 23 giugno ha postato su Facebook la foto di Daniel Cabrera, 9 anni, scrivendo in calce “Un bambino mi ha ispirata”. Cabrera è il cognome del padre che Daniel non ha mai avuto, che si ammalò e morì in prigione senza aver sposato la madre. La donna vive con i pochi soldi che guadagna al McDonald’s di Mandaue City.
Daniel fa la terza, possiede una sola matita e ancora gli manca l’album da disegno. La mamma ha promesso che gliene comprerà uno appena avrà qualche risparmio. Ai giornalisti accorsi ad intervistarlo, ha risposto che da grande vorrebbe fare il poliziotto, o il medico.
Se la volontà che dimostra oggi, sotto il lampione, resterà intatta, l’impresa sarà possibile. Noi glielo auguriamo.
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