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Stili di Vita

CRITICA AI SISTEMI SOCIALI

VALERIO CRUGNOLA - 17/07/2015

Una delle svolte introdotte dalla Laudato si’ è il ripudio della tradizionale lettura della Genesi che assegnava all’uomo la signoria sulla natura. Nel disegno di Dio la relazione tra l’uomo e il resto della natura non può essere per Francesco di sfruttamento e dominio, bensì di mutua convivenza: dolce, affettuosa, conviviale, cauta. Ma, anziché costruirsi teologicamente, l’argomentazione si regge su parametri apertamente pragmatici. Sembra che, persino in materia teologica, le teorie e le interpretazioni non si giudichino a priori per la loro bontà razionale o coerenza dogmatica, bensì a posteriori, per gli effetti pratici che determinano. La logica dello sfruttamento diviene controproducente oltre una certa soglia. L’abbiamo già varcata da tempo. Ne resta una soltanto: la soglia di irreversibilità. La nozione di beni comuni segna il parametro che pretende l’adozione non più derogabile di criteri precauzionali vólti a prevenire ulteriori danni.

Corre tra filosofi, giuristi ed economisti un’usanza che equipara un bene comune a ciò che non è bene privato, e un bene privato a ciò che è possesso illimitato anziché concessione a titolo provvisorio. Se riduciamo i beni comuni a res nullius, la «roba di nessuno» è potenzialmente disponibile all’altrui impossessamento. Forse non è esatto dire che sia considerata «lì da prendere», ma sicuramente è giudicato lecito considerare che quella roba sia lì da sfruttare, perché – non essendo di nessuno ed essendo perciò priva di «valore» economico, o meglio mero valore d’uso del tutto privo di valore di scambio –, chiunque voglia impossessarsene può farlo purché non rechi danno a nessuno.

Questa visione ha esiti funesti. La predazione dell’ambiente ha via via ridotto la sfera delle res nullius: tutto o quasi è divenuto capitalizzabile. Gli effetti invece – frutto perverso di quella che con icastica potenza Francesco chiama «cultura dello scarto» – hanno esteso a dismisura tale sfera in termini di distruzione dell’equilibrio ecologico, di perdita irrimediabile di risorse come il suolo e le biodiversità, di espansione dei rifiuti: solidi, liquidi, aeriformi e, soprattutto, umani. Gli scarti crescono in misura direttamente proporzionale alla privatizzazione totalizzante della natura. Irresponsabilmente, le «diseconomie esterne» sono scaricate su tutti. A rimetterci sono i più deboli e chi non può avere voce: gli altri esseri viventi e le generazioni future. Francesco non demonizza il profitto, l’intrapresa, l’economia di mercato. Al mito dell’uguaglianza sostituisce il criterio più avvicinabile e contenuto dell’equità. Discorrere di beni comuni non è un esercizio teorico fine a se stesso: è una questione cruciale di equità elementare e di urgenti, radicali scelte pratiche. La questione è al di sopra delle forze della tradizionale azione di supplenza della Chiesa in materia sociale. Anche per la Chiesa, sia pur in termini di «sussidiarietà», essa diventa anzitutto una questione politica.

La nozione cristiana di vita riceve nuovo impulso da un forte spostamento d’accento rispetto all’asse dominante negli ultimi decenni, peraltro non ripudiato né ripudiabile: occorre preservare la vita nella sua interdipendenza, nella sua qualità più alta, nelle sue condizioni più essenziali. La denuncia del relativismo, cara ai due pontefici precedenti, cede la prima fila alla critica radicale dell’antropocentrismo. Quale unico custode della natura, l’uomo è vincolato a responsabilità collettive che assurgono a comandamento etico universale e a criterio dirimente nelle scelte, in sede politica ed economica non meno che nell’agire individuale. Tanto più vi sono vincolati i credenti: «Vivere la vocazione di essere custodi dell’opera di Dio – scrive Francesco – è parte essenziale di un’esistenza virtuosa, non costituisce qualcosa di opzionale e nemmeno un aspetto secondario dell’esperienza cristiana».

Il dovere di custodia vale anche per il secondo ruolo dell’uomo: egli è legittimo fruitore e produttore della natura solo nel rispetto dei vincoli di custodia. Tra le righe del testo papale persino il lavoro sembra potersi riconfigurare come attività di cura prima ancora che come produzione di beni. Certo, quest’ultimo punto si presta alla critica di utopismo. Ma qualche amico mi invita a ricordare che il messaggio evangelico non contempla l’adeguazione passiva al mondo qual è. O è un dettato di speranza, una prefigurazione o non ha senso.

Mai, storicamente, la piattaforma d’incontro tra religioni e laicità è stata così larga, proprio sul tema più delicato, quello biopolitico, secondo una definizione oggi corrente che risale a Foucault. Lo è, beninteso, non su tutto il fronte delle biopolitiche: non in materie come l’aborto o la sessualità, ad esempio, dove comunque molti commentatori hanno intravisto un’intransigenza più mite, che privilegia fin dove possibile la riduzione del danno (sarebbe il caso, in particolare, delle unioni civili) rispetto alla trascorsa contrapposizione frontale.

L’orizzonte in cui l’enciclica situa l’appello ad una svolta ecologico-sociale è in linea con la tradizione cristiana: il bene comune. Ma Francesco lo estende con più forza ai diritti e all’equità. «L’ecologia umana è inseparabile dalla nozione di bene comune, un principio che svolge un ruolo centrale e unificante nell’etica sociale. Il bene comune presuppone il rispetto della persona umana in quanto tale, con diritti fondamentali e inalienabili ordinati al suo sviluppo integrale. Esige anche i dispositivi di benessere e di protezione sociale e lo sviluppo dei diversi corpi intermedi, applicando il principio di sussidiarietà. Il bene comune richiede la pace sociale, vale a dire la stabilità e la sicurezza di un determinato ordine, che non si realizza senza un’attenzione particolare alla giustizia distributiva».

L’orizzonte del bene comune così definito vale come bussola normativa cui ogni scelta di interesse generale deve uniformarsi. Al suo interno è però possibile discorrere solo di «beni comuni» Essi implicano un irrinunciabile diritto d’accesso condiviso in modo egualitario. Possiamo distinguere due sottogruppi. I beni primari non deteriorabili, come le acque, l’aria, i suoli, la vegetazione ecc., o alcuni servizi altrettanto primari e attinenti la nuda vita, come le sepolture e l’igiene pubblica, appartengono a tutti perché tutti ne hanno uguale bisogno e non possono essere privatizzabili se non in condizioni di necessità ma pur sempre soltanto in sede gestionale, per meglio proteggerli e così soddisfare i bisogni in piena uguaglianza. Negli ultimi secoli, la custodia dei beni primari non è stata adeguatamente disciplinata, sì che essi – una volta accaparrati e trasformati in merci – sono stati sottoposti a logiche privatistiche di profitto, e perciò gravemente lesionati. Nel secondo gruppo si collocano i saperi derivanti dalle scienze, dalle tecniche, dalle esperienze pratiche, dalle arti, ma altresì i tesori sapienziali delle religioni e delle culture.

Il rapporto tra i due gruppi di beni comuni impedisce che il primo possa ridursi a mero oggetto e il secondo a mera capacità d’uso. Di fatto sinora non è stato così. Parlando dell’asservimento delle scienze e delle tecniche ai potentati economici, Francesco illustra bene questa distorsione: «Occorre riconoscere che i prodotti della tecnica non sono neutri, perché creano una trama che finisce per condizionare gli stili di vita e orientano le possibilità sociali nella direzione degli interessi di determinati gruppi di potere. Oggi il paradigma tecnocratico è diventato così dominante che è molto difficile prescindere dalle sue risorse, e ancora più difficile è utilizzare le sue risorse senza essere dominati dalla sua logica». Ma, seguendo Pascal, l’essere umano è capace non solo di miseria ma anche di grandezza. Scienze e tecniche restano uno dei beni più alti, nobili e socialmente utili che l’umanità abbia generato nel corso dei millenni. Solo un mutamento radicale di paradigma che le liberi da tale asservimento, potrà restituirle ai loro fini sociali e a un accesso, se non giusto ed eguale, quantomeno equo per tutti.

«Ai problemi sociali si risponde con reti comunitarie, non con la mera somma di beni individuali. La conversione ecologica è anche una conversione comunitaria». Anche qui è possibile discorrere solo al plurale: le «comunità». Il termine communitas rimanda a tre congiunte reciprocità: l’obbligo, il dovere, il dono. Francesco non unifica artificialmente l’idea di comunità. Vi sono al contrario comunità interdipendenti, plurime e plurali e non olistiche, capaci cioè di valorizzare le individualità anziché di conformarle (l’enciclica è disseminata di richiami al rischio incombente di una conformazione globale, di una perdita irrimediabile della biodiversità umana).

La critica dei sistemi sociali realmente esistenti non potrebbe essere più forte. Le reti comunitarie sono già prefigurate nel presente. Ma istituzioni non più all’altezza, una politica scadente, un’economia autoreferenziale e impenetrabile dall’esterno e cattive abitudini di vita diffuse ormai su scala planetaria imbozzolano queste reti e ne tarpano le possibilità. Perché una fioritura sia possibile, ciascuno di noi è chiamato a una conversione interiore e a buone pratiche di cambiamento.

3- continua

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