La fontana che sparisce dalla galleria Manzoni è un piccolo simbolo. Di grande significato: la resa ai vandali, agl’insozzatori, ai nuovi padroni della città. Cioè gl’impuniti che fanno quel che gli pare, sicuri di non subire sanzioni alle loro scorribande.
Varese doveva essere un modello di tolleranza zero. Sconfitta memorabile. Vicende di tolleranza mille si sono ripetute negli anni, epicentro piazza Repubblica, ottimo sostegno dai dintorni e dalle periferie. L’ordine pubblico, come recitano le autorità, sarà pure – paragonato ad altre situazioni urbane – di codice non rosso. Ma insufficiente a corrispondere ai canoni sbandierati: il sogno d’una Varese pulita, ordinata, sicura resta tale. La realtà non vi si adegua.
La fontana nel mezzo della galleria era diventata ricettacolo di sporcizia, scritte volgari, deturpamenti. Il peggio che si potesse mostrare ai passanti, disincentivati a transitare di lì. Ne ha sofferto il commercio: negozi chiusi, degrado in crescita, immagine complessiva sconsolante. La realtà ha imposto alle istituzioni il provvedimento demolitorio: meno male che hanno avuto il buon senso di prenderlo.
E adesso? Adesso bisognerà ricostruire nel luogo una monumentalità ideale/saggia: la scultura dell’accettabile coesistenza popolare. Iniziative culturali, intrattenimenti di pregio, ogni possibile aiuto a chi volesse rialzare le serrande tirate giù. Sin dalla sua nascita, questo sito non ha mai esercitato il calore che richiama presenze, frequentazione, empatia. Fedele al biancore dei suoi marmi, la galleria s’è atteggiata a freddo, neutro, indifferente braccio di comunicazione fra le vie del quadrilatero Magatti – Foscolo – Mazzini – Manzoni. Nel progettarla non si avvertì la necessità/imposizione di pensare a un’architettura che invitasse alla sosta, all’ammirazione, al compiacimento. Una distrazione grave, peraltro in linea con altre, quasi che il concetto di funzionalità dovesse prevalere su quello di vivibilità.
Sbagliato. Senza l’affermarsi della prima, è spesso (quasi sempre) fatale il soccombere della seconda. Questo luogo varesino rappresenta l’esempio della superficialità realizzativa che ha caratterizzato, nei decenni trascorsi, molti nostri edifici: innalzati ciascuno secondo la momentanea convenienza d’una singola intrapresa, sprovvisti tutti dell’armonioso filo esistenziale che dovrebbe cucire insieme una città che sia una città. Una polis imperniata sulla partecipazione. Un sito comunitario invece che con numerose sue parti da scomunicare.
Vicenda minuscola, quella della fontana. Però di maiuscolo significato. Testimonia del fallimento del contemporaneismo urbano, incapace di una visuale d’insieme, d’un orizzonte strategico, di una comprensione profonda dell’opportunità di fornire all’uomo un habitat che ne allerti lo spirito sociale anziché spegnerlo.
Dentro questo ideale tunnel dell’equivoco architettonico-filofosico, di cui Varese fornisce nostro malgrado una serie infinita d’applicazioni pratiche, non poteva che starci una concretissima galleria. Rimuoverne le macerie civiche non sarà così facile come avere eliminato la malinconica fontana che avrebbe dovuto impreziosire un incrocio d’umanità e l’ha invece impoverito.
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