La Laudato si’ ci interpella come esseri umani che vivono in interdipendenza reciproca e che operano in varie comunità, locali e globali. Il significato del verbo «interpellare» oltrepassa quello del semplice interrogare. Con qualche forzatura, possiamo trasporre il senso etimologico di interpellatio (sollecitazione) nella metafora del bussare alla porta (pellere), del chiamare qualcuno per entrare o per invitarlo a uscire.
Interpellandoci, Francesco ci chiama ad interrogarci entro un reciproco orizzonte dialogico, a penetrare a fondo nella domanda, a darvi risposta in modo consapevole fino a tradurla in una prassi di trasformazione costruttiva che investa direttamente il nostro modo di vivere.
La vita è un sistema di interazioni complesse. Ciascun essere vivente è insieme singolare e plurale. Ogni esistenza singolare è sempre una relazione con una pluralità di altre esistenze. Lo stesso vale per le specie. Ogni «io», ogni individuo umano è anzitutto un «noi». Al contrario la società contemporanea ci ha spinto a pensarci come atomi isolati. Gli effetti di questa prospettiva falsante sono stati e sono pesantissimi. Dobbiamo cambiare urgentemente rotta. La forza dell’enciclica di Francesco consiste nell’estendere il rapporto tra questo singolo individuo e la pluralità dei suoi «noi», a tutte le manifestazioni della vita organica, dell’esistenza inorganica e della cultura. Il molteplice è mediante il tutto ancor più di quanto il tutto sia mediante il molteplice. Se ogni singolo uomo, custode della natura e della vita, e con lui tutte le molteplici istituzioni che costituiscono il suo «noi», non sapranno tornare a questa prospettiva unitaria, non solo vedremo aggravare il declino del pianeta, la più estesa, ma non infinita, «casa comune», la sola nostra irrinunciabile ricchezza, ma dovremo rassegnarci a vivere in un quadro sociale sempre più degradato.
Ci è chiesto, anzitutto, di cambiare postura logica, di adottare criteri razionali nell’ispirare i nostri comportamenti. Ma non può bastare. Nessuno ignora che stiamo assistendo a un pericoloso riscaldamento del pianeta, che non possiamo permetterci più lussi in materia energetica, che le ingiustizie sociali vecchie e nuove che caratterizzano l’economia globale sono persino più insostenibili dei nostri scriteriati livelli di consumo, che i danni provocati da un modello irresponsabile di crescita sono sul crinale dell’irreversibilità. La libera comunità scientifica, gli economisti non subalterni ai dominanti (e devastanti) paradigmi liberisti che coprono e premiano gli interessi di potentissime oligarchie finanziarie, industriali e politiche, gli intellettuali, gli ambientalisti hanno predicato per anni nel deserto. Papa Francesco ha aggiunto a questi allarmi la propria autorevole voce. Ma nemmeno l’appello papale potrà essere sufficiente da solo; e il primo ad esserne consapevole è proprio Francesco.
L’enciclica papale esamina le difficoltà che determinano questa temporanea, ma prolungata paralisi dinnanzi a scelte non più rinviabili. Macrofenomeni come il degrado generalizzato della politica, inclusa quella locale, l’assenza di una governance globale, il dominio apparentemente irrefrenabile del modo di produrre, di lavorare e di consumare che regola l’economia globale, gli interessi di poteri forti di tipo oligarchico si associano, in particolare, a microfenomeni diffusi come la vischiosa aderenza di gran parte degli abitanti del pianeta a stili di vita non più sostenibili e non più proponibili, e l’incistarsi nei comportamenti collettivi e individuali di mentalità e di abitudini acquisite che di quegli stili formano il supporto e che così reiterano inerzialmente le «cattive pratiche» dell’ultimo mezzo secolo.
Almeno a mio parere, Francesco individua l’anello di congiunzione tra i due ordini di fenomeni nei vincoli comunitari. Sono quei fenomeni ad averli erosi, assottigliando sempre più la fecondità dei legami etici, culturali, storici, biologici e territoriali tra «io» e «tu», e tra «io-tu» e «noi-loro». Ma è a quei vincoli che occorre guardare, non per restaurarli quali tradizioni in nome di un ordine preso dal passato, ma per ricostruirli in modo originale e coerente con le configurazioni che abbiamo attraversato e dalle quali dobbiamo urgentemente e radicalmente congedarci.
«Neocomunitarismo» e «benicomunismo» sono termini un po’ astrusi, estranei di per sé al lessico dell’enciclica, nonché molto ambigui per orecchie impreparate a coglierne il significato. Lo è soprattutto il secondo, che non vagheggia affatto quella comunanza dei beni nel cui nome sono stati costruiti dei regimi totalitari inaccettabili, per alludere invece ad una gestione non privatistica dei beni comuni. Nonostante ciò, desidero sfruttare la pregnanza di questi termini per illustrare meglio le posizioni dell’enciclica.
Partiamo dal primo. Il pensiero «comunitarista» non ha mai goduto di buona accoglienza a livello filosofico, nonostante abbia radici, oltre che nel pensiero cristiano più avanzato, anche in pensatori e pensatrici tutt’altro che secondari, come Alistair MacIntyre, Charles Taylor e – soprattutto – Hannah Arendt. Se ne teme in particolare l’eccesso di inclusività organicistica, che produrrebbe effetti micrototalitari. In fondo – si argomenta non a torto – la presenza di comunità plurali e parallele entro altre comunità più vaste ma ormai svuotate di forza effettuale, come sono i consunti Stati nazionali, potrebbe portare a giustificare un padre pakistano che punisce con la morte la figlia che rifiuta il matrimonio combinato dai genitori. Come potremmo contrastare in nome del comunitarismo i nuovi fondamentalismi, come quello islamico, che pretende una totale adeguazione, in ogni minimo recesso del vivere, tra comportamenti individuali e ordinamenti civili in nome dell’identità religiosa collettiva? Sono obiezioni giuste, che invitano ad un uso molto cauto della nozione di comunità. Ma ai critici del comunitarismo sfuggono due punti cruciali. Non è detto affatto, intanto, che la nozione di comunità implichi soltanto, come nelle società tradizionali, rapporti di subordinazione dell’individuo ad un insieme di valori che gli si impongono con la forza della sorveglianza occhiuta dei custodi di quell’idea del Giusto che struttura e definisce la comunità.
Possono esservi comunità insieme post-tradizionali e post-moderne che si costruiscono muovendo da livelli di condivisione non olistici e anzi pienamente pluralistici, e che rispettano il frutto supremo della modernità, la libertà e i diritti che sono insindacabile competenza dell’individuo, e anzi ne conservano la centralità fondativa. Anzi, quelle comunità già esistono, sono le nostre, ci siamo immersi ma non ne prendiamo adeguatamente atto. In secondo luogo, le dottrine politiche e morali non vanno giudicate, a mio avviso, dalla loro bontà teorica, come vorrebbe la filosofia analitica anglosassone, ma dalla loro efficacia concreta in vista di «buone pratiche» che migliorino la qualità della vita comune e garantiscano il futuro delle generazioni a venire. Il rischio di scarnificare la politica e la morale, sottraendola alle dimensioni concrete dell’esistenza, è peggiore dei guasti che si vogliono evitare con un razionalismo di tipo dottrinario.
So bene quali siano le matrici ideologiche di chi ha coniato e diffuso in Italia il termine «benicomunismo». Il fatto che qui siano stati gli eterni reduci della sinistra radicale dei secondi anni ’70 ad appropriarsene in cerca di ossigeno per sopravvivere a se stessi, non toglie al neologismo, più ancora della sua forza concettuale. la sua utilità pratica, che va parametrata con misura e senza ideologismi, ma non respinta con superficialità.
La gestione dei beni comuni non può essere né collettivistica né privatistica, e in questo senso rigetta come inservibile, almeno in questo ambito, la tradizionale polarità sinistra vs destra. Il parametro di misura nuovo non è «a chi appartengono» i beni comuni, siano essi istituti pubblici o soggetti privati, ma «quali sono i criteri razionali e vincolanti preposti alla loro gestione». È a questo proposito che la comunità, intesa come aggregato responsabile e consapevole, e perciò democratico e plurale senza essere né una sommatoria di atomi autoreferenziali o una struttura totalitaria, entra prepotentemente in gioco nei risvolti civili della Laudato si’.
Il terreno è pronto per farvi accettare il termine «benicomunitarismo», che sintetizza gli aspetti propositivi e privi di ombre dei precedenti. Ma delle ricadute normative, politiche e comportamentali del benicomunitarismo diremo la prossima volta.
2- continua
You must be logged in to post a comment Login