Una ventina d’anni orsono dovetti occuparmi del Mose, il faraonico progetto di contrasto dell’acqua alta a Venezia ancora oggi di là da venire dopo aver disseminato di scandali tangentizi politicamente trasversali – emersi solo negli ultimi anni – il suo faticoso cammino di crescita.
Perplessità, critiche e opposizioni alla ciclopica intrapresa a onor del vero si erano manifestate da più parti sin dall’inizio. Forse con qualche ragione molti sostenevano che una sistematica e puntuale pulizia dei canali non sarebbe stata risolutiva ma avrebbe quanto meno contribuito a mitigare il fenomeno. Il dibattito contribuì a mettere la città di fronte a un dato incredibile: la Serenissima, ovvero i suoi avventurati amministratori precedenti la prima Giunta Cacciari, avevano da anni di molto rallentato la manutenzione ordinaria e straordinaria dei canali, le vene pulsanti della città d’acqua che risultavano sempre meno percorribili – soprattutto quelli interni – e sempre più maleodoranti.
Per sentire anche una campana non veneziana mi recai negli uffici dell’Unesco di piazza San Marco dove un funzionario inglese fotografò la situazione di Venezia con una battuta a valenza nazionale: “Venezia è la metafora dell’Italia – disse – un paese che non riesce a passare dalla cultura dell’emergenza alla cultura della manutenzione” Sono passati vent’anni ma non vedo in tal senso significativi cambiamenti né su scala nazionale né su scala locale. Terremoti, alluvioni, dissesti geologici a vario titolo, discariche abusive, strade e autostrade in briciole subito dopo le inaugurazioni, centri storici in endemico abbandono continuano ad essere una dimostrazione tangibile della citata metafora.
Certo il fenomeno, distribuito lungo lo stivale a pelle di leopardo e con diverse valenze di intensità e pericolosità, fotografa un costume che permane nel tempo, un’incultura endemica fondata sul giorno per giorno, sull’improvvisazione talvolta eroica, piuttosto che sulla razionalità e la programmazione degli interventi. Appartiene a pieno titolo a questo genere di trascuratezze l’occuparsi poco e male da parte delle amministrazioni locali delle cosiddette sottostrutture (tombini e canalizzazioni in particolare) come si trattasse di dettagli ininfluenti dell’organizzazione di una città, “pinzillacchere” avrebbe detto Totò. Senza dubbio l’ultimo dei problemi nei mesi estivi fino ai primi robusti temporali destinati a mostrare impietosamente tutta l’arrogante imprevidenza degli assessorati preposti e dei loro miopi uffici. Come sempre intasamenti, allagamenti, pozzanghere e conseguenti costosi disagi torneranno alla ribalta delle cronache.
Tutte o quasi le città italiane hanno accumulato in materia un pesantissimo deficit di manutenzione. Non fa certo eccezione Varese. Stime benevole parlano di almeno un dieci per cento di tombini fuori uso. Per rendersene conto basta fare qualche passeggiata con gli occhi rivolti all’ingiù. L’ ho fatta nei giorni scorsi percorrendo via Settembrini che nella Casbeno alta collega via Monviso con Viale Sant’Antonio, immersa tra ville di più recente costruzione e lo storico parco di Villa Concordia (proprietà Zanoletti) che fu, tra l’altro, punto di raccolta di ebrei destinati alle carceri di Como e Milano nel biennio 1943/’44 ( Varese i luoghi della memoria, Franco Giannantoni, ed. Arterigere). Bene, in questa deliziosa e storica bretella ben sette tombini su nove sono intasati e inservibili, alcuni addirittura non sono più apribili e ispezionabili perché incorporati nel manto di asfalto nuovo posato lo scorso anno. Una specialità varesina dal momento che la stessa situazione è addirittura riscontrabile in piazza Monte Grappa accanto alla fontana e in molti altri luoghi della città, luoghi che andrebbero accuratamente inventariati per poi porvi finalmente rimedio. L’assessore Santinon se c’è dovrebbe battere un colpo, magari in compagnia del sindaco che in quest’ultimo scorcio di legislatura si aggira per i pubblici cantieri come mai aveva fatto prima.
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