Non c’è giornale, cartaceo od online, che non dedichi ogni giorno qualche servizio alle elezioni primarie per la scelta dei candidati da presentare nelle varie competizioni. Il fatto strano è che dicono timidamente di volerle quei partiti (o porzione di essi) che non le hanno mai praticate mentre cominciano a venir messe in discussione dal Pd che le aveva introdotte nello statuto e nella prassi fino al punto di considerarle elemento del proprio dna.
Le ragioni delle inquietudini del Pd stanno nelle vicissitudini e nell’esito delle primarie in Liguria, Campania, Venezia ed altri luoghi importanti e cari al centrosinistra. La domanda che ci si pone è se siano l’arma giusta per Varese, Milano e per le tante e importanti città dove si voterà l’anno prossimo. Posto così il quesito è frutto di un approccio riduttivo e fuorviante.
Bisognerebbe tornare ai motivi di fondo di quella scelta. Di fronte a partiti chiusi e distaccati dalla vita pulsante si riteneva che sarebbe stato necessario dare la voce agli elettori. Sempre meno erano e sono i cittadini disponibili a legarsi ad un partito con l’iscrizione permanente e tanti invece quelli ancora pronti a partecipare a campagne specifiche su singoli problemi o alla selezione dei propri rappresentati nelle istituzioni.
La riforma della politica e dei partiti è ancora molto lunga ma passa da questa strada. Se in alcuni luoghi le primarie sono state pesantemente influenzate dagli apparati, o da cerchie ristrette di persone e interessi, sarebbe successo qualcosa di meglio se tutto si fosse deciso tra gli iscritti, o meglio fra i dirigenti? Se in Campania ha prevalso Vincenzo De Luca con il fardello di una condanna in primo grado per abuso d’ufficio, la responsabilità sta in chi, nel Pd, avrebbe potuto fermarlo, non nelle primarie che lo hanno incoronato candidato, peraltro vincente.
Se Raffaella Paita ha perso in Liguria è perché era stata assessore all’ambiente durante le drammatiche alluvioni di Genova. Ha prevalso di poco su Cofferati nelle primarie ma in una conta interna avrebbe vinto molto più nettamente. Felice Casson a Venezia ha perso nel ballottaggio perché visto come un candidato che parlava alla sinistra piuttosto che a tutta la città. Non c’entrano nulla le primarie.
I problemi sono ben altri. Non è che con le primarie il partito si possa lavare mani e piedi e scaricarsi dal compito gravoso di partecipare a costruire le varie opzioni da sottoporre agli elettori dei gazebi. Oppure, non è che si possa fare a meno di un modello di regolamento valido in tutta Italia che stabilisca in modo rigoroso tempi, modi e diritti di partecipazione al voto.
Tutte le alternative alle primarie sono di peggiore
qualità. Per il candidato premier ogni ritorno alle decisioni di partito sarebbe un triplo salto indietro. Anche per i sindaci delle città sarebbe la stessa cosa, a meno di una scelta unanime della coalizione. Da cancellare invece le primarie per il segretario regionale del Pd e da ridiscutere quelle per il candidato presidente della Regione: troppo lontane sia dalla conoscenza dirette delle persone (come per i candidati sindaci) sia da una fortissima e pervasiva campagna su giornali e televisioni (come per il leader del partito e candidato premier).
il mio amico Lorenzo Guerini, vice di Renzi, dice che le primarie non sono un dogma. Ci mancherebbe solo questo. Di una chiesa laica non farei mai parte. Le primarie servono proprio per non precipitare in questo buco nero.
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