Sia alla scala internazionale per l’evidente incapacità dell’Occidente secolarizzato di dare una risposta reale alla sfida del terrorismo islamista, e sia alla scala nazionale a seguito della mobilitazione autoconvocata all’origine della sorprendente assemblea di massa dello scorso 20 giugno a Roma, la questione della presenza pubblica dei cristiani nel mondo in cui viviamo sta tornando con urgenza alla ribalta. Nel nostro Paese ciò implica inevitabilmente una rinnovata attenzione per la vita, per il pensiero e per l’opera di Luigi Giussani, e per Comunione e Liberazione, il movimento ecclesiale che (quasi suo malgrado) gli nacque tra le mani.
In un’epoca, nel gelo della Guerra fredda, in cui tale presenza pareva ai più potersi risolvere con una delega quasi incondizionata al partito della Democrazia Cristiana, Giussani e Cl furono antesignani di una svolta, ben presto bollata come “integrismo” dall’ordine costituito del tempo, che venne pagata a caro prezzo dai più diversi punti di vista, da quello ecclesiale a quello politico-culturale. Oggi, in un contesto in superficie molto mutato, ma che nel profondo non fa che confermare le acute previsioni di Giussani su quello che sarebbe stato il nostro presente, tornare a lui diventa inevitabile. Nell’Italia della seconda metà del secolo scorso Giussani fu il primo a dire chiaramente e a motivare in modo argomentato che il cristiano ha il diritto e il dovere di occuparsi da cristiano di tutto, compresa perciò la vita pubblica e quindi tra l’altro la politica. Per questo non solo fuori ma anche dentro la Chiesa venne accusato di “integrismo”, e a ciò rispose esaurientemente in sede sia teorica che pratica.
Sullo spunto dell’evento dello scorso 20 giugno a Roma, della valutazione al riguardo da parte della dirigenza di Cl nonché dell’adesione personale ad esso di un gran numero di “ciellini”, si è tra l’altro aperto un dibattito a proposito di che cosa don Giussani avrebbe detto e fatto in circostanze del genere. Dico subito che non intendo affatto contribuire a tale dibattito, e ciò anche per fatto personale. Essendo l’intervistatore e poi l’estensore del libro-intervista di Luigi Giussani oggi disponibile col titolo Il Movimento di Comunione e Liberazione, 1954-1986 (BUR/Rizzoli, Milano, 2014), che è la principale fonte diretta sulla nascita e sui primi trent’anni di sviluppo di Cl, ho sempre scelto di restare nel mio ruolo di testimone oculare, seppur privilegiato, senza mai pretendere di pormi per questo come interprete autentico del pensiero e dell’opera di don Giussani. Ciò vale tanto più in questi tempi in cui spesso si cita, anche molto autorevolmente, un passaggio di tale libro: quello ove si parla dell’”irrevocabile distanza critica” che vi deve essere tra Cl, quindi in senso lato la Chiesa, e i “ciellini” impegnati in politica, quindi in senso lato la sfera del potere civile. In un certo senso le citazioni sono appunti, che rimandano poi il lettore attento all’insieme del passo da cui sono tratte. Siccome vedo che questo non sempre accade, mi permetto di sollecitare chiunque voglia cogliere esattamente il senso di tali parole alla lettura di quel passaggio (pagine 152 e seguenti della suddetta edizione BUR). Dopo aver preso le mosse dalla fondamentale affermazione secondo cui “il primo livello di incidenza politica di una comunità cristiana è la sua stessa esistenza”, un’affermazione dalla quale deriva tutto un insieme di rilevanti riflessi in sede pubblica, Luigi Giussani dice da un lato della “attiva simpatia” del movimento di Cl per quei suoi aderenti che sono impegnati nella vita politica e dall’altro della “irrevocabile distanza critica” nei loro confronti. Posta in tale contesto quest’ultima non si riduce dunque alla sbrigativa presa di distanze, magari anche un po’ furba, per cui in questi ultimi tempi alcuni osservatori la vogliono far passare. Senza ad ogni modo fare altri commenti rimando alla lettura del testo originale.
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