L’enciclica Laudato si’ riprende, sviluppa e sintetizza moltissimi temi che, da quando nel lontano 1972 il Club di Roma pubblicò I limiti dello sviluppo, costituiscono un riferimento stabile e un oggetto di riflessione collettiva negli ambienti culturali, filosofici e civili che ho frequentato, al punto che, a metà della lettura, ho scherzato con qualche amico chiedendo se fossimo noi ad essere d’accordo con il Papa o il Papa ad essere d’accordo con noi: un modo per attutire lo stupore per le parole inattese di un’enciclica così franca e coraggiosa.
Per decenni, dal mio punto di osservazione, la Chiesa è stata incarnata da Ruini più che da don Gallo: vicina ai poveri a parole, in pratica allineata ai poteri forti; un’istituzione lontana, più lunare che terrestre, perché, quali che ne fossero le intenzioni, è parsa pretendere di esercitare il suo magistero sentenziando a partire da un’arida posizione dottrinaria anziché muovendo dalla diretta comprensione della vita, degli orizzonti, dei problemi, delle esperienze e talora delle sofferenze di miliardi di persone.
Con il papato di Giovanni Paolo II e poi di Benedetto XVI i rapporti dei laici con la Chiesa non erano stati dei migliori. I non credenti – inclusi quelli che allontanano da sé l’etichetta di atei o di agnostici – si erano sentiti trattati come se mancassero di qualcosa, come se un gap incolmabile collocasse chi possiede una fede su un gradino superiore agli altri. Al contrario Francesco depone ogni integralismo, si rivolge a tutte le persone di buona volontà, apre un dialogo tra uguali «per cercare insieme cammini di liberazione» [64], per «uscire dalla spirale di autodistruzione in cui stiamo affondando» [163]. La stessa istituzione che cacciò Zanotelli da Nigrizia ora va a scuola dai contadini di Sem Terra; e, pur con una critica del mondo presente puntuale e senza infingimenti, sembra voler entrare in punta di piedi nel dibattito pubblico, perché «i princìpi etici che la ragione è capace di percepire possono riapparire sempre sotto diverse vesti e venire espressi con linguaggi differenti, anche religiosi» [199], dove quel semplice «anche»addita un approccio nuovo, non ideologico, ai problemi contemporanei e un diverso rapporto con le scienze, la ricerca filosofica, le culture, i popoli e anzitutto con le singole persone. Non è solo rinato il cattolicesimo liberale: è nato un nuovo cattolicesimo politico, un inedito «illuminismo» cattolico.
Francesco accantona nei fatti una tradizione teologica che ha posto la ragione al servizio della fede. Qui è semmai la fede a porsi con rispetto al servizio della ragione. È la scienza, non la religione, ad ammonirci dei rischi che corriamo tutti: ricchi e poveri, credenti e no. Siamo ben oltre il «dialogo» che ispirò il Concilio. Dopo più di trent’anni di incomprensioni, anche reciproche, è la Chiesa a riconciliarsi con il mondo, non il mondo a doversi riconciliare con lei. Sono anzitutto le istituzioni, a partire da quelle religiose, a dover riconquistare credibilità. La Chiesa di Francesco si pone come parte di una «rete comunitaria» globale che si adopera per la salvezza del pianeta, e vuole spendersi e portare il proprio contributo, senza porsi su un piedistallo. Anche il messaggio più propriamente cristiano, una volta restituito all’altezza dei tempi, potrà essere più efficace e credibile. I primi a doversi convertire sull’orlo dell’abisso, afferma Francesco, sono i cristiani. È nella parte di mondo dove vivono principalmente i cristiani, infatti, che l’idea irresponsabile di uno sviluppo illimitato e fine a se stesso, retto da esclusive logiche di profitto, ha preso piede e di lì ha colonizzato il mondo. Qui la conversione ecologica è più urgente. Per un secolo i paesi ricchi hanno dato il «mal esempio» in materia ambientale; è tempo che ora diano per primi il buon esempio, uscendo in modo netto e radicale da un modello consumistico di produzione e di vita che è stato esportato ovunque. I cristiani si sono lasciati appiattire da questo modello; la loro voce è stata troppo flebile, talvolta muta.
Gli stessi riferimenti più schiettamente cristiani sono formulati in modo tale da poter essere condivisi da tutti, perché termini come beni comuni, vivere insieme, sacrificio, bontà, amore, giustizia, pace, cura della natura, difesa dei poveri, rispetto e fraternità sono valori trasversali. Le polarità novecentesche (laici vs credenti, fede vs scienza, destra vs sinistra) finiscono in soffitta. «La gravità della crisi ecologica esige da noi tutti di pensare al bene comune e di andare avanti sulla via del dialogo che richiede pazienza, ascesi e generosità, ricordando sempre che la realtà è superiore all’idea» [201].
L’enciclica vuole trasmettere un impulso salvifico universale urgente e non differibile: non ultraterreno e palingenetico, ma «mondano»; non profetico ma crudo e realistico. In gioco è la sopravvivenza del pianeta, prima che il degrado divenga irreversibile e i danni ambientali, sociali e antropologici divengano incalcolabili. La «rivoluzione culturale» che siamo invitati a compiere, la «sfida educativa» che siamo chiamati a raccogliere, la «cittadinanza ecologica» che dobbiamo imparare a esercitare in nome di una responsabilità universale, investono gli stili di vita di ciascuno; ma il loro obiettivo è, in ultima analisi, «conservatore». È un compito che investe tutti, indipendentemente dai convincimenti ideali: dai microcosmi della vita individuale ai macrocosmi dell’economia e della politica.
Il fatto che molte tesi dell’enciclica sintetizzino in modo mirabile teorie già circolanti, ne facilita la comprensione e l’apprezzamento. L’idea dei limiti delle risorse era già entrata nel senso comune, anche se poi, contraddittoriamente, siamo stati inerzialmente condotti in direzione di modelli di vita tanto obsoleti quanto radicati. La necessità di buone pratiche che cambino i nostri stili di vita, di produzione e di consumo non è nuova nemmeno per la Chiesa. La necessità di riaprire il ciclo temporale dei nostri orizzonti, dal presente immediato al futuro delle nuove generazioni, è idea ben nota a chi si occupa di filosofia. Anche il nesso tra crisi ecologica, fallimento di un modello di crescita, diffusione dell’«inequità» sociale, crisi della politica e nuove tensioni globali non è di per sé nuovo. La convinzione che il meno sia meglio rientra in una tradizione sapienziale millenaria, che l’industrializzazione mirata al consumo ha malamente smarrito e che abbiamo tutti, chi più chi meno, incautamente espulso dal nostro orizzonte prospettico, ma che abbiamo l’obbligo di ritrovare, se l’umanità non vuole finire sopraffatta.
È invece nuova la definizione del concetto di ambiente, e in genere di beni comuni, non come realtà statiche, ontologicamente date, bensì come relazioni reticolari, come interdipendenze complesse che prendono in origine direzioni non prevedibili ma che possono divenire sempre più delle gabbie, dei paradigmi dai quali è sempre più difficile uscire se non pagando prezzi enormi. Proprio la non prevedibilità di questi processi, o la legittima prevedibilità di un processo più distruttivo che costruttivo, consiglia oggi la «cura», più ancora che la tutela, dell’ambiente eco-sociale. Nessi reticolari così forti e costrittivi, abbandonati a sé stessi per un’irresponsabilità globale, per essere spezzati e mutati in circuiti virtuosi esigono responsabilità altrettanto reticolari. Siamo tutti chiamati a fare la nostra parte. Prudenza, sobrietà, umiltà, costruzione di ponti, unità di intenti, relazione tra saperi di pari dignità pongono le condizioni perché il primo secolo del nuovo millennio trovi delle bussole etiche che l’economia, e una politica subordinata ai poteri forti e al consenso, non sono più in grado di fornire.
Avevo da poco dismesso i pantaloni corti quando uscì la Pacem in terris. La Laudato si’ giunge al tramonto dei miei anni. La prima ha segnato l’uscita da un paradigma, quello della guerra fredda. La sua eco fu enorme, e cambiò il corso delle nostre vite. Ma da allora abbiamo combattuto una nuova guerra, quella contro la casa comune, e per fini assai meno nobili di un conflitto tra libertà e totalitarismo. C’è da augurarsi che l’eco sia ancora più grande, e gli effetti ancora più estesi e duraturi. Un paradigma è al tramonto. Tocca a noi tutti, con saggezza, ricostruirne un altro.
1- continua
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