Chi ci guadagna dalla celebrazione della confessione? Ci verrebbe spontaneo dire: il penitente, perché gli sono perdonati i suoi peccati.
Ma in verità, se il perdono è il segno dell’amore perfettamente gratuito – perdonare è il “superlativo di amare” – allora Dio è l’unico che può farlo, perché lui è “onnipotenza di amore”, amore senza limiti.
Celebrare la riconciliazione non è un triste ripiegarsi su se stessi per scovare i propri sbagli, ma una “festa di famiglia”, perché si celebra l’amore misericordioso di Dio. La gioia bella e vera è quella condivisa: l’uno si rallegra delle ragioni dell’altro!
Quando ci accostiamo al sacramento della Penitenza, dobbiamo metterci in atteggiamento di lode a Dio, perché solo lui può rifarci dal di dentro. Lui ha un giudizio diverso da quello della gente o da parte di ciascuno di noi, perché vede in noi quello che siamo, in fondo all’animo…
Giuda non ha creduto che Gesù potesse perdonarlo e, disperato, si uccide per il rimorso. Non ha capito che Gesù, nell’istante in cui stava ormai per tradirlo, lo aveva chiamato “amico” sul serio. Ha fatto al suo Maestro un torto più grande del suo tradimento. Pietro, al contrario, che pure aveva tradito, incontrando lo sguardo di Gesù, si ricorda che è capace di perdonare, perché il suo amore è più grande del suo peccato. Il suo Signore gli era ancora “amico”. Per questo scoppia a piangere, e così è salvo!
Uno si riconosce peccatore non quando si tormenta perché ha fatto qualche sbaglio, ma quando si accorge che Dio gli vuol bene ancora e decide di ricambiare tanta benevolenza immeritata.
È incredibile, ma noi rendiamo a Dio l’onore più grande proprio quando da peccatori, a mani vuote, accogliamo il suo perdono. Quando gli chiediamo scusa, facciamo un grande favore a Dio, perché proclamiamo la sua grandezza, più grande di qualsiasi grave offesa gli abbiamo fatto.
Vengono in mente due comportamenti – tra loro antitetici – che Gesù ha evidenziato con la parabola del fariseo e del pubblicano. Dicono due modi di rapportarsi al Signore, di avere coscienza di sé, di impostare la vita spirituale e sociale. “Il fariseo, cosciente della propria dignità, sta ritto in piedi e prega tra sé, autocompiacendosi; non è pervaso da santo timore né da stupore davanti alla divina Maestà. Per esaltare sé stesso, denigra gli altri. Questa però non è vera preghiera: con essa il fariseo non rende culto a Dio, ma brucia incenso davanti al proprio “io”. Il Signore, che è il Padre degli umili, distoglie lo sguardo dal superbo e lo volge proprio là, in fondo al tempio, dove, battendosi il petto e con lo sguardo chino a terra, il pubblicano sussurra: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
La preghiera del fariseo aveva per soggetto il suo “io” ingombrante, quella del pubblicano ha per soggetto il “Tu” liberante: “Tu”, che sei il Signore misericordioso, “abbi pietà di me, che sono peccatore”. Parole sincere, spezzate dalle lacrime: esse commuovono il cuore di Dio, perché il pubblicano si mette sotto i suoi occhi in tutta la propria povertà” (Anna Maria Cànopi).
La Croce di Gesù è la Parola con cui Dio ha risposto al male del mondo. Dio ci giudica amandoci. Chi accoglie il suo amore è salvo; chi lo rifiuta è condannato, non da Lui, ma da se stesso, perché Dio non condanna, Lui solo ama e salva, perché col suo amore può far tutto!
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