Niente, neanche un premiuncolo, attaccava l’inviato della Rai al festival cinematografico di Cannes, Vincenzo Mollica, recensore di solito sempre così entusiasta e mai aspro nei giudizi contro qualsivoglia artista del cinema e della canzone. Italiani a casa, quasi sbertucciati. Un patriottismo insolito, da parte di Mollica di solito sempre così misurato.
Il riferimento, detto e non detto, era soprattutto attribuito al film di Paolo Sorrentino Youth – La giovinezza, passato a Cannes, stando almeno all’esito, quasi tra gli sbadigli. Eppure l’anno scorso “La grande bellezza” s’era aggiudicato l’Oscar come miglior film straniero. È mai possibile cadere così, e in un così breve tempo, dagli altari alla polvere?
La debàcle, se di vera sconfitta si tratta, la si dovrà analizzare tra qualche mese, dopo che si saranno tirate le somme delle presenze del film al botteghino: nelle sale d’Italia, ma soprattutto di quelle estere, americane comprese, gli italiani intellettuali loro li amano. I francesi invece (ma nella giuria di Cannes c’erano i fratelli Joel ed Ethan Coen che di film astratti se n’intendono), è risaputo, non tengono poi in gran conto i nostri autori, anche in virtù di quella famosa grandeur cui il primo forte scossone, cinema a parte, fu dato nella finale dei campionati del mondo di calcio del 2006, ancora più che dalla disfida di Barletta e da Ettore Fieramosca.
Che dire… Sorrentino non sembra un regista banale, e nemmeno fumoso, ma l’impressione è che in queste due ultime sue opere abbia trattato temi già ampiamente svolti nel passato, e meglio, anche e soprattutto da suoi connazionali. Non sono pochi coloro i quali videro nella Grande bellezza una rimasticatura della Dolce vita con un Tony Servillo impelagato e svagato in una Roma 2.0; un Marcello Mastroianni di recupero, insomma. E altrettanto si potrebbe dire di Harvey Keitel che in Youth – La giovinezza vede sfilare il suo passato, i suoi impulsi e le sue donne al modo di Fellini di 8 e ½ (ma non si tratta soltanto di questa sequenza…).
L’impressione di deja vu è stata forte, la volta scorsa e la presente. Non è che, per esempio, nel riconoscimento alla Grande bellezza (il Premio Oscar 2014) ci sia stata un po’ di sopravvalutazione? Sopravvalutazioni politically correct che si sarebbero potute registrare anche in occasioni precedenti, in relazione a film italiani premiati negli USA, a cominciare da La vita è bella di Benigni, per continuare, andando un po’ all’indietro, con Mediterraneo di Salvatores. Si salva, a nostro giudizio, il furbetto film di Giuseppe Tornatore Nuovo cinema Paradiso. Ma niente a che vedere con il Fellini di 8 e ½ e, soprattutto di Amarcord. O con il Vittorio De sica di Sciuscià e di Ladri di biciclette, e anche di Ieri, oggi e domani. Sempre rimanendo agli Oscar.
Non si tratta (anche per il cinema) di riandare ogni volta al passato. Ma una stagione così, una sequenza di film così importanti – pietre miliari – hai voglia a ripercorrerla.
Certamente, qualche volta, il genio si addormentava e, magari, faceva assopire anche lo spettatore, tipo l’ultimo e l’ultimissimo Fellini di La città delle donne, di La voce della Luna e anche di Ginger e Fred.
Ma per l’imitato La dolce vita niente da dire (Palma d’Oro a Cannes e nomination all’Oscar). Quando La dolce vita uscì fece un effetto dirompente. Qualcuno a destra e anche nel mondo della Chiesa e della Curia romana. Eppure il film, che trattava di un’epoca, fece esso stesso epoca, entrò nel costume e nei modi di dire italiani.
Non crediamo si possa affermare la stessa cosa della Grande bellezza e, soprattutto, di Youth. Vedremo come andrà a finire, però per adesso possiamo dire che almeno i fratelli Coen non ci sono cascati.
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