Niamey, 20 maggio 2015. Sono qui, solo, nel silenzio di Niamey della mia stanza, oppresso da sentimenti di impotenza, sbigottimento, incomprensione quasi surreale. Da un lato ho delle foto di fine ‘800 e inizio ‘900 che presentano uomini e donne incatenati, fustigati, con le mani mutilate per non aver raccolto e consegnato la quantità di “caucciù” richiesta, senza paga, dal re Leopoldo II del Belgio, dalla sua personale colonia del Congo; dall’altro lato la foto del Crocifisso della chiesa di Rogoredo con il Cristo con il capo chino e la bocca semiaperta, ormai morto.
Dovunque guardo mi sento a disagio, quasi incredulo, non sento neppure la forza di ribellarmi, non mi viene da gridare “No!”. Mi sento impotente totalmente e quasi rassegnato, con la voglia di… niente, neanche di chiudere gli occhi per non vedere, anche perché le immagini sono impresse “dentro” e non possono non essere… viste.
L’atroce crudeltà dell’uomo sull’uomo, dell’uomo del potere sull’Uomo che “fa del bene”, o sull’uomo colpevole di vivere a casa sua con quello che la natura gli dà e che lo straniero, vuole per sé.
L’uomo, la storia, il potere, la forza, l’avidità, la ricchezza… la colonizzazione nella sua verità di ogni tempo, anche di oggi, camuffata da civiltà, progresso, evoluzione, persino aiuto. È impossibile restare indifferenti e non lasciarsi coinvolgere, sarebbe inumano, cinico. Se poi sfiora il pensiero che “chi fa questo” è bianco, con alle spalle una religione, un Dio, allora il dramma entra nel cuore, nello spirito, fino a coinvolger la carne. Resto senza parole, addirittura immobile, non so cosa dire, tanto meno cosa fare. Le immagini sono sempre lì, impossibili da cancellare e ogni giorno se ne aggiungono altre, nuove e vecchie, già viste.
Chino il capo, la bocca è semi-chiusa, le spalle sono un po’ più curve, il passo è un po’ più lento tra la sabbia, rasento i muri, come le caprette, in cerca d’ombra, sono sudato e a volte il caldo mi opprime, saluto la gente, i bambini, più con il sorriso che con le parole, (non riesco ad imparare la lingua), osservo con discrezione e rispetto ogni cosa e ogni azione dell’uomo, soprattutto della donna, avvolta nel velo fin da piccola, da fare tenerezza; dove e quando è possibile, stringo la mano a tutti. Due volte al giorno vado, attraversando alcune case e incontrando giovani e bambini che vanno a scuola o giocano, a pregare in chiesa; mentre il muezzin chiama alla preghiera cinque volte al giorno; se qualcuno chiede un aiuto, allora l’assistente sociale provvede.
È la mia risposta alle foto che ho davanti, da un lato e dall’altro e che a volte si sovrappongono.
Sono un bianco, ho una religione e un Dio alle spalle, sono in casa d’altri con il permesso, non vorrei minimamente aggiungere un qualcosa alla colonizzazione.
Se posso vorrei “pagare” qualcosa per tutto quello che è stato fatto all’uomo, perché nero, perché non come noi.
Così, lo sguardo mi scappa e si ferma sul Cristo Crocifisso di Rogoredo, che, da fin da piccolo, mi ha accompagnato e insegnato a “pagare” come Lui ha pagato.
Sono in Niger da sei mesi e cerco di vivere così.
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