Prototipo di ogni «intellettuale di regime», cantore della pax augustea, Virgilio mise in bocca a Enea un’esortazione che all’epoca avrebbe dovuto suonare come una profezia, ma che dietro la finzione letteraria nascondeva il manifesto politico di Augusto: Tu regere imperio populos, Romane, memento: / hae tibi erunt artes, pacis imponere morem, / parcere subiectis et debellare superbos (Eneide, VI 851-53) [«A tua volta ricorda, Romano, di reggere i popoli con il tuo imperio. Queste ne saranno per te le tecniche: imporre le regole di pace, risparmiare i sottomessi e stroncare i superbi»].
Di questi famosissimi versi va colta anzitutto la doppia contrapposizione virgiliana tra subiecti e superbi e tra parcere e debellare, che stabilisce i criteri di un potere verticale esercitato come strumento di pacificazione: benevolo verso chi si arrende, feroce con chi non si piega. Una scelta tra la vita e la morte, date e ricevute, non importa se reali o simboliche.
La riduzione dell’arte del governo all’imperium (inteso in generale, come potere di comando e non strettamente come imperium augusteum) conosce una sola legge: la contrapposizione semplificatrice tra parcere e debellare, tra una mano blanda e mite, o che quantomeno preserva la vita, e una dura e spietata nei confronti dei sottoposti a seconda di come essi si atteggino davanti all’imperium stesso, se con rassegnazione e collaborazione o con ostilità e resistenza.
Nella sua essenza e non solo nel suo esercizio, il potere si restringe a mero governo sui sudditi, ora benevolo ora punitivo, ora carota ora bastone. La remissiva sottomissione dei dominati e la vittoria annientatrice su chi invece non si arrende, sarebbero le condizioni indispensabili per esercitare l’imperium, il potere di comandare con la legge della forza per imporre la forza delle leggi che promanano dal potere assoluto. La subalternità implica un uso prudente e inclusivo della forza, ma può essere mantenuta solo se la si bilancia con l’esemplarità della sua asprezza quando si abbatte come una mannaia su quanti non riconoscono altro potere al di sopra di loro stessi e, rivendicando il diritto ad autodeterminarsi e a preservarsi indipendenti, rifiutano di essere schiacciati e sottomessi e oppongono perciò una qualche forma di resistenza pur di non venire conquistati o assimilati. La distinzione latina tra hostis – l’avversario in guerra, che può essere temporaneo e con il quale si può giungere a patti – e inimicus – l’oppositore irriducibile e permanente, che non si fa piegare a costo della morte – riflette questa visione dell’imperium.
La pace è concepibile in una sola forma: l’imposizione di un’assimilazione forzata in cambio della vita. O si è vinti, e dunque vivi ma sudditi, o persiste lo stato di guerra, e anzi si aggrava, senza più mezze misure, fino al conflitto totale e all’annientamento finale. L’obbedienza dei sottomessi è la vita; la disobbedienza dei ribelli è la morte. L’icastico giudizio di circa un secolo dopo dato da Tacito nell’Agricola – Desertum fecerunt et pacem appellaverunt – («Hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace»), suona come una presa di distanza dalla logica virgiliana, ma ne coglie con lucidità il nucleo concettuale. Nonostante questa mutata sensibilità, dovuta ad un maggior margine di autonomia di giudizio per gli intellettuali, l’imperium, dopo Augusto, era divenuto possibilmente ancor più spietato. Fin quando resse, il potere romano concepì sempre la pace come semplice protezione dei confini rispetto ai nemici esterni, e dell’ordine al loro interno mediante la sottomissione ora paternalistica ora repressiva dei sudditi. La pace è soltanto sicurezza e ordine. La tradizionale polarità amico/nemico che molti – Hobbes e Schmitt in particolare – assumono come fondamento istitutivo della politica potrebbe fare spazio a un terzo niente affatto incomodo, anzi decisamente «comodo»: la figura del suddito che obbedisce, si piega e non rompe le scatole…
L’ordine, l’obbedienza e la sicurezza sono dunque i fini dell’imperium. Ma vi è altresì un doppio monopolio che ne consente l’esercizio e il conseguimento dei suoi tre obiettivi: quello della forza e quello della facoltà di decidere. Senza il monopolio della forza sarebbe impossibile mantenere l’ordine, imporre l’obbedienza e garantire la sicurezza. Senza il monopolio della decisione regnerebbe invece l’anarchia, come era accaduto nell’ultimo secolo di vita della Roma repubblicana.
Considerare coloro che non si arrendono come dei superbi da debellare non è certo una particolare prova di umanità e di pietas da parte di Enea, alter ego di Augusto. Il mondo antico era avvezzo a queste pratiche, e Roma – non solo quella imperiale – non fece eccezione. Compiere una comparazione con gli orrori del colonialismo e con quelli delle guerre, delle pulizie etniche e dei totalitarismi e autoritarismi del ‘900 non serve. Non è questa la sede per simili raffronti storici, privi peraltro di valore scientifico. Emerge con chiarezza, invece, una distanza culturale radicale, consumatasi definitivamente – almeno nella filosofia della politica – nella seconda metà del XX secolo.
Noi figli della democrazia preferiamo la resistenza alla resa, l’incertezza di chi combatte per la propria libertà alla presunta «sicurezza» offerta dall’alto dai vincitori come premio per la sottomissione dei vinti. Aborriamo l’idea stessa di conquista, di assimilazione forzata, di una pace consistente nell’imposizione dell’ordine voluto dai vincitori mediante l’imperium. Non riduciamo la pace all’ordine imposto dai vincitori, ma in suo nome invochiamo la convivenza tra eguali. Temiamo come la peste il monopolio della decisione e della forza, ne pretendiamo anzi la divisione e il bilanciamento, preferiamo il diritto di opporci e di costruire alternative e ricambi al presunto diritto di comandare.
Questo nella sfera politica, almeno a parole. Anche quando l’enfasi cade sulla decisione, la sicurezza, l’ordine e l’obbedienza, la nostra idiosincrasia di matrice liberale verso l’imperium non viene meno. Manteniamo ancora dei salutari anticorpi.
Ma è così anche nella vita economica e sociale e nella sfera privata? La democrazia, la libertà, la pace, la certezza del diritto, il rispetto dei diritti sono pervasivi: non può esistere una democrazia politica in una società autoritaria, mentre un regime autoritario raramente sopravvive a una società sufficientemente libera, bilanciata e plurale. Abbiamo tutti sotto gli occhi l’insuccesso dei tentativi di trapiantare la democrazia rappresentativa in società che la ignorano nella sfera sociale e nella vita quotidiana. Se il tentativo sino ad ora non ha funzionato, non è tanto perché in Afghanistan, Somalia, Iraq, Siria, Libia e altrove esso si è concretizzato manu militari, ma perché le radici di una società autoritaria, retta sul dominio dei clan, sull’integralismo religioso, sull’assenza di una cultura laica e avvezza al pluralismo e sulla schiavitù delle donne, sono rimaste intatte. Dove invece la democrazia è giunta manu militari in un territorio dove la società autoritaria era scomparsa da tempo, come in Serbia, le cose hanno funzionato.
E da noi? L’elenco dei fenomeni preoccupanti è lungo. I media sono sempre più monopolistici. Il mercato del lavoro è fortemente squilibrato. Un’accettabile equità ha fatto posto ad una crescita inaccettabile delle diseguaglianze. Milioni di persone si confrontano giornalmente con nuove forme di povertà o deprivazione. Il conformismo dei comportamenti tende a prevalere. Sacche di intolleranza verso chi è diverso, e forme di discriminazione di fatto, talvolta al limite del razzismo, si ricostruiscono in nuove forme in luogo delle vecchie, che una lunga trasformazione culturale aveva ridimensionato. La vita di comunità, un tempo inclusiva, tende a mutarsi in escludente, a divenire una barriera, un limes invalicabile. Insicurezza e paura dominano molti comportamenti e molte opzioni, non solo politiche. Nell’intimità, le pulsioni maschilistiche al dominio di genere riaffiorano. Tutto questo viene legittimato con i princìpi costitutivi dell’imperium che abbiamo analizzato sopra: forza, sicurezza, obbedienza, ordine, decisione… Naturalmente anche qui ci sono anticorpi e controtendenze: ammetto di aver voluto forzare le tinte fosche, a scapito delle sfumature, per rendere più vivo il quadro.
L’imperium politico sembra scomparso, o quanto meno non è in grado di riprendere piede negli stati nazionali, mentre diviene anonimo, lontano e quasi inattaccabile in sede globale. Viceversa, nella sfera sociale e nella vita quotidiana si è frantumato, è diventato microfisico, ma prospera e si riproduce quasi inavvertito. Serve un grande sforzo comune per ricostruire la democrazia nella vita ordinaria, in quella quotidianità che precede la politica. È questa, forse, anche la sola strada per restituire pienezza democratica alla politica, riconferendole il ruolo e la dignità perduta.
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