Parliamo del decreto legge recante misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti approvato dal Governo il 20 gennaio, presentato alla Camera dei deputati il 24 gennaio, approvato in prima lettura il 12 marzo e convertito definitivamente in legge dal Senato, dopo che il Governo aveva posto questione di fiducia il 24 marzo, giusto sul filo di lana prima della decadenza.
Il decreto che impone alle banche popolari di maggiori dimensioni di trasformarsi in società per azioni entro 18 mesi è comunque apparso fin dall’inizio segnato da un vizio di forma: è infatti difficile intravedere le condizioni straordinarie di necessità e urgenza, come richiede la Costituzione, per un provvedimento varato senza che vi fosse alcun elemento di novità, e quindi di straordinarietà, sullo scenario finanziario.
Ma la riforma delle banche popolari non appare solo ingiustificata nel metodo, appare anche 1) autoritaria nella forma, con un iter parlamentare concluso in tempo solo grazie al voto di fiducia, 2) illiberale nei contenuti, perché viola l’autonomia di importanti soggetti economici; 3) ideologica nella sua filosofia, ispirata ad uno statalismo che non riconosce il valore della sussidiarietà, 4) velleitaria negli obiettivi, perché punta ad uno sviluppo del credito per istituti che hanno già fatto il loro dovere molto meglio delle altre categorie, 4) rischiosa nell’attuazione, perché lascia campo aperto all’arrivo dei fondi speculativi e di interessi estranei alle economie locali, 5) isolata nella strategia, perché nessun altro paese europeo ha imposto trasformazioni simili ed anzi i grandi paesi, come Germania e Francia, pur se in forme diverse, hanno difeso il carattere e rispettato l’autonomia delle banche popolari.
Intendiamoci. Non c’è nulla di male, anzi in qualche caso può essere anche positivo, che grandi banche nate e cresciute come popolari si trasformino volontariamente in società per azioni, magari con qualche vincolo statutario per mantenere particolari forme di rappresentanza. Quello che stona nel provvedimento voluto dal Governo è l’imposizione dall’alto, l’introduzione del tutto arbitraria di una barriera di 8 miliardi negli attivi, l’abolizione di vincoli basati sulla sana prudenza come quello di nominare gli amministratori tra i soci cooperatori. In pratica la volontà di uniformare tutte le grandi banche allo stesso modello giuridico fondato sul capitale.
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Perché un intervento sulle banche popolari, e in particolare sulla governance di queste? Le ragioni ufficiali, illustrate oltre che nello stringato comunicato di Palazzo Chigi anche più estesamente nella relazione che ha accompagnato il disegno di legge di conversione, appaiono basate su considerazioni che rispondono solo in parte alla realtà dei fatti, che si muovono lungo valutazioni non documentate, che si richiamano alla “logica del mercato” in maniera più ideologica che fattuale.
Innanzitutto si parla del fatto che l’Unione europea avrebbe “realizzato una profonda revisione dell’architettura della regolamentazione e della supervisione delle banche”: questo è certamente vero, ma non c’è in nessun modo e sotto nessuna prospettiva all’interno di questa revisione un’abolizione del voto capitario e una forzata trasformazione in società per azioni delle banche cooperative. In Germania, Francia, Austria, Olanda, Finlandia, dove esistono banche anche di grandi dimensioni di natura cooperativa non è mai entrato in discussione un provvedimento simile a quello italiano.
Sempre la relazione sottolinea come la crisi economica abbia portato negli ultimi anni ad una contrazione dell’erogazione del credito e questo richiederebbe il rafforzamento della capitalizzazione “di alcune banche”, quelle popolari appunto. A questo proposito varrebbe la pena ricordare uno studio della Cgia di Mestre in cui si afferma che “in anni in cui la stragrande maggioranza delle banche ha chiuso i rubinetti del credito alle famiglie e alle imprese, le uniche ad aver incrementato gli impieghi sono state le banche popolari. Nell’arco di tempo che va dall’inizio della fase di credit crunch (2011) sino alla fine del 2013, le Popolari hanno aumentato i prestiti alla clientela del 15,4 per cento”.
Sempre nella relazione si ricorda poi la necessità di una elevata capacità di finanziamento delle banche, ma si omette di ricordare che proprio grazie alla credibilità degli istituti e alla fiducia dei risparmiatori tutte le banche popolari hanno portato a termine negli ultimi anni e in particolare nel 2014 gli aumenti di capitale necessari a rispettare in pieno gli standard europei. Come ha osservato nell’audizione parlamentare del 19 febbraio il presidente dell’Associazione nazionale tra le Banche popolari, Ettore Caselli : “negli ultimi tre anni (2011-2014) le Popolari hanno realizzato aumenti di capitale per oltre 9 miliardi di euro, tutti perfezionatisi con l’immissione di risorse finanziarie di soggetti privati (…) e l’eccedenza patrimoniale complessiva delle 8 Banche Popolari oggetto dell’esame della Bce è risultata di 4 miliardi e 417 milioni di euro”. Qualche problema su questo piano l’hanno avuto Mps e Carige, banche che tuttavia popolari non sono.
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In conclusione si può affermare che l’attacco alle banche popolari è un altro capitolo dell’insofferenza della politica verso le espressioni di democrazia economica e sociale. Un segno del privilegiare la logica del capitale su quella della centralità delle persone, un esempio del prevalere degli interessi tecnocratici sui valori dell’autonomia e della sussidiarietà.
articolo estratto dal libro “Popolari addio” di France Debenedetti e Gianfranco Fabi (editore Guerini) che verrà presentato lunedì 15 giugno alle 18 alla Camera di commercio di Milano
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