All’indomani delle ultime elezioni regionali, autorevoli editorialisti hanno evidenziato l’alto tasso di astensionismo: un italiano su due – complice forse il lungo “ponte” – non si è recato alle urne.
Riflettere su questo dato calamitoso per la tenuta della nostra democrazia, che si fonda sulla partecipazione, è doloroso. I partiti e i candidati (soprattutto quelli bocciati) ricercano le colpe. È più onesto individuarne le cause.
Anzitutto, occorre notare che la campagna si è svolta all’insegna della presentazione di candidati, ma non all’esposizione di programmi. Chi ha fondato la campagna sulla lotta agli emigranti, ai rom ladri e sporchi, alla classe dirigente corrotta e inetta, alla tassazione della prostituzione, dimenticando il federalismo, farebbe bene a pensare a ciò che è successo recentemente in casa propria, quando alcuni suoi dirigenti hanno arraffato ingenti somme dalle casse pubbliche.
Chi ha predicato una campagna di odio e di violenza, condotta in modo eccessivamente mediatico e che si propone alla guida della destra (moderata o incendiaria che sia) farebbe bene riflettere un po’ su che cos’è la politica: un progetto, una visione della “polis” da costruire per il bene di tutti nel rispetto dei principi di uno stato democratico. Hanno capito bene questa esigenza di cultura politica coloro che avevano cavalcato soltanto due anni fa la protesta, ma si sono ricreduti e lentamente, attraverso un processo che ha intercettato le esigenze dei protestatari più lucidi, si stanno avvicinando alla politica che è anzitutto proposta. Ciò non può che far bene alla nostra democrazia.
Ma l’antipolitica ha le sue radici nel passato più remoto. Sarà bene ricordarlo. Tangentopoli aveva decapitato i leader storici della trentennale e sempre più affaticata maggioranza in sella dal 1962 al 1992. Cominciò così la crisi dei partiti. Apparve allora sulla scena politica un uomo nuovo che, appellandosi ai suoi trascorsi imprenditoriali, assicurava di voler cambiare i destini dell’Italia con la sua determinazione, il suo ingente patrimonio, la sua potenza mediatica senza confronti.
Nonostante i pesantissimi limiti etici e culturali della sua azione, la maggioranza degli elettori gli affidò il suo consenso, mentre numerose coscienze si assopirono di fronte all’artista pubblico, all’imbonitore, al vanitoso, nonché padre-padrone del suo partito. Costui raggiunse il fondo della sua cultura politica quando annunciò in Parlamento la fiducia a un governo che fino a dieci minuti prima aveva tentato di far cadere, lasciando sbigottiti i suoi stessi cortigiani che, ciechi e muti, lo seguirono nel gioco.
Se la gente più accorta oggi si è rivoltata contro la politica è anche a causa della mancanza di una cultura lasciataci in eredità da questo giocoliere. Così, accanto alla crisi dei partiti incominciò il degrado della politica. A ciò vanno sommati il malaffare, la corruzione, la mancanza d’etica, l’alto tasso di litigiosità tra partiti e all’interno della medesima “comunità”, sostantivo che da un po’ di tempo ha sostituito quello, quasi antiquato e terribile, di “partito”.
Intanto il barlume della fondazione di una politica liberale italiana, tutta mercato e privato, che poteva avvicinarci alla destra europea moderata, andava smorzandosi sotto gli scarsi risultati in materia economica, alla parossistica politica estera e davanti all’incalzare della crisi mondiale. A questi governi si sono contrapposti esecutivi di centro-sinistra (o sinistra-centro) guidati da uomini coscienti della gravità della situazione economica e sociale, competenti soprattutto in materia economica, stimati dalle cancellerie straniere, coerenti con l’immagine di una sinistra europea riformista. Tali governi, però, godevano di una risicata maggioranza che si frantumò anche a causa del passaggio di alcuni transfughi ad altri gruppi: frange estremistiche e vanesi alleati contribuirono a rendere ancor più ingarbugliata la già complicata situazione politica.
E alla crisi dei partiti, della politica subentrò l’assenza di una capace classe dirigente che fu occupata da affaristi, manovrieri e corruttori. E venne un uomo il cui nome era Matteo. Si fece avanti rottamando gli uomini della vecchia guardia e, con essi, le idee che incarnavano.
Il suo modo di comunicare nasconde qualcosa di artificiale. Quando parla si gonfia: basta vederlo, non esprime concetti o argomentazioni, ma lancia vuoti slogan di cui non possiede la prova della loro attuabilità, adopera slide e lavagne, si fa immortalare con i selfie, polemizza con chi non si accoda alle sue decisioni e denuncia soprattutto gli errori degli altri, dimenticando ciò che Epiteto già diceva: “Quando tu fai qualche cosa, se hai ragione, perché temi quelli che hanno il torto di biasimarti?”
Egli è figlio del nostro tempo: più che ragionare lancia effimeri messaggi; al dialogo preferisco il soliloquio; rifugge dal confronto con gli esperti e si affida alla sottocultura delle trasmissioni televisive; la sua voglia di fare in fretta è pari alla tempestività con cui coglie al volo ogni occasione per magnificare i suoi fiori prodotti, che – bisogna ammetterlo – incominciano a dare buoni frutti, grazie alle condizioni esterne favorevoli; la sua tenacia nasconde spesso un comodo parapetto per dare ragione alle proprie ragioni.
Come noi, vive in un mondo in cui tutto è fluido, ossia inconsistente e impersonifica la transitorietà: la perdita del senso del tempo, la cultura dell’adesso e il bisogno insopprimibile di cacciare via gli altri per occupare la scena. In tal modo, ha contribuito ad indebolire ancora di più il pensiero della cultura politica che dice di rappresentare.
Anziché elaborare le proposte e costruirvi sopra un’identità chiara del partito a cui aderisce, condanna le diversità d’opinioni e le trasforma in una lotta di posizioni personalistiche del tutto estranee alla sostanza dei problemi. Il giovane fiorentino preferisce andare avanti sulla propria strada, deciso più che mai.
Saremmo tentati da un soffocante pessimismo, da un ottimismo di maniera o da una rassegnazione illusoria, ma la speranza cristiana c’invita a capire e a interpretare i segni dei tempi.
La democrazia italiana avrebbe bisogno di un solido partito di sinistra riformista, come di una vera politica liberale incarnata da leader autorevoli.
Avrebbe bisogno di quella “cultura dell’incontro” che Papa Francesco ha più volte auspicato: non si tratta di omologare, ma di unire nella diversità. Ciò significa abbandonare il personalismo da dedicare ai capetti, capaci di dilaniarsi tra di loro; pretendere dai politici che vivano conformemente ai loro discorsi, capaci di trasmettere ai cittadini il senso della sobrietà (anche della parola), di politici che vivono più in mezzo alla gente che alla massa, che siano uomini di carattere, non di dispotismo, che non contrabbandino i compromessi sotto le spoglie della strategia, che si tengano al largo da chiacchierati personaggi e dai loro tranelli.
Soprattutto la politica italiana ha bisogno di cultura, di creare convinzioni per combattere i populismi da ovunque essi provengano. Una volta la politica viveva in stretto connubio con la cultura; oggi questo legame si è allentato e ha perso vigore: la passione personale è scaduta al rango di subordinazione ossequiosa al capo di turno.
Perché la “cultura dell’incontro” in politica porti in sé il germe di un lievito nuovo, occorrono donne e uomini non solo incorrotti, ma vigilanti sul’uso improprio del potere; uomini e donne che non perdano la propria coscienza rinunziando alle proprie convinzioni, che colgano il vero volto delle vecchie e nuove povertà e che abbiano soprattutto la capacità di persuadere, spiegando che la situazione attuale richiede sacrifici soprattutto da parte di chi ha tanto per dare aspettative sicure a chi ha poco e niente.
Solo così si può combattere l’antipolitica.
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