Non è solo la disaffezione crescente degli elettori a preoccupare il Partito democratico dopo i risultati non entusiasmanti delle recenti elezioni regionali del 31 maggio. A essere messo in crisi è anche il meccanismo stesso delle Primarie, sino a ieri fiore all’occhiello del Pd per il peso degli elettori nella selezione delle candidature, in contrapposizione all’autocrazia dei “nominati” negli altri partiti. In Liguria il candidato battuto qualche mese fa alle elezioni primarie, Cofferati, ha accusato la vincitrice Paita di accordi affaristici con l’avversario di centro-destra, ha favorito la scissione dell’ala civatiana ligure, che si è presentata col proprio candidato alle elezioni regionali e ha indebolito ulteriormente una candidata Pd già debole di suo, sconfitta dal “signor nessuno” di centro-destra Toti.
In Veneto la candidata Moretti, trionfatrice delle primarie a fine 2014 e già lady-preferenze alle elezioni europee di maggio, ha precipitato il partito nel peggior risultato della storia, surclassato dal leghista Zaia. In Campania le primarie hanno dato lo scettro a De Luca, candidato ineleggibile a presidente della regione perché bersaglio della Legge Severino ma che cocciutamente ha insistito nella partecipazione alle elezioni regionali, vincendole contestatissimo e sprofondandosi in contorte controversie giudiziarie per l’impossibilità di assumere la carica.
Neanche in passato nelle Primarie Pd sono mancati i flop, quando non i disastri: a Napoli nel 2011 il vincente Cozzolino fu sospettato di brogli, inciuci col centro-destra e collusioni con la camorra, con conseguente annullamento delle votazioni da parte della segreteria nazionale, commissariamento della segreteria regionale e presentazione di un candidato “romano” (il prefetto Morcone) che non giunse nemmeno al ballottaggio, dove ebbe la meglio Luigi De Magistris, esponente della stessa area di sinistra in quota Italia dei Valori.
A Palermo nel 2012 contro Rita Borsellino, sostenuta dalla segreteria nazionale e provinciale Pd, prevalse per pochi voti Fabrizio Ferrandelli, in quota IdV ed ex allievo prediletto del sindaco della “primavera antimafia” Leoluca Orlando, con vari indizi d’accordi perversi con la destra autonomista di Raffaele Lombardo in sospetto di mafia; seguì la rappresaglia giustiziera dello stesso Leoluca Orlando, che raccogliendo tutta l’area di appoggio alla Borsellino si presentò e vinse da solo, con una propria lista accusata di “tradimento” dall’ex pupillo Ferrandelli.
Mentre a Genova nello stesso 2012, nelle primarie di coalizione, prevalse Marco Doria di Sel, poi vincitore come sindaco. Del resto, con le “primarie di coalizione” – sono candidati non solo gli esponenti Pd ma anche di altri partiti alleati – la strada del “papa straniero” di provenienza Sel era stata aperta da tempo dallo stesso fondatore della sinistra radicale, Niki Vendola, che nel 2005 aveva prevalso alle primarie regionali sul lettiano Francesco Boccia – privatamente “trasversale”, avendo sposato la berlusconiana Nunzia Di Girolamo – ed era diventato presidente della Puglia, battendo limpidamente il governatore uscente di centro-destra Raffaele Fitto. E la storia si era ripetuta nel 2010 a Milano, con il successo netto e imprevisto del vendoliano Giuliano Pisapia.
Ma con tutti ‘sti pasticci, servono ‘ste Primarie? Propagandate da Renzi e dal Pd come la panacea democratica contro le candidature dall’alto e la prepotenza delle burocrazie di partito – a maggior ragione dopo l’adozione del meccanismo dei “capilista bloccati” nella nuova legge elettorale mono-camerale “Italicum” – sembrano non reggere alla prova dei fatti, quando il gioco si fa duro e i duri cominciano a giocare. Competizioni che si trasformano in risse, accuse reciproche di tradimento, contestazioni e misconoscimenti della vittoria dell’avversario, magari prevalenza di candidature esterne imbarazzanti e persino selezione di candidature scadenti, inadeguate e vocate a perdere le elezioni vere, quelle ufficiali per i vari livelli di governo.
La questione si proietta su Varese e provincia per le prossime elezioni comunali 2016, che vedranno impegnati i comuni più importanti a partire dal capoluogo, con il centro-sinistra e in esso soprattutto il Pd di Renzi (neo-veltroniano “a vocazione maggioritaria”) competere per la conquista storica delle roccaforti di destra. Obiettivo speciale: la città-bandiera della Lega Nord, sventolante sul Comune di Varese da oltre un ventennio per fregola bossiano-maroniana, nonostante che nel capoluogo nella sfilza di elezioni la Lega non abbia mai avuto la maggioranza, se non all’inizio dell’ascesa di Forza Italia (2011: Lega 24,0%, PdL 24,5%; 2006: Lega 19,7%, F.I. 25,7%; 2005: 20,9 contro 24,6%; 2004: 17,7 contro 25,4%; 2002: 18,1 contro 25,6%; 2001: 16,1 contro 31,8%; 2000: 18,4 contro 34,1%; 1999: 15,0 contro 30,9%; solo nel 1997: Lega 35,5% e F.I. 16,2%).
A Varese e provincia di primarie vere non se n’erano ancora viste granché, se non in occasione di candidature nazionali, come per la scelta del candidato del centro-sinistra a presidente del consiglio dei ministri (2005: Prodi; 2012: Bersani), a segretario nazionale Pd (2007: Veltroni; 2009: Bersani; 2013: Renzi) e dei parlamentari Pd di Camera e Senato (2013). Nessuna di particolare interesse: le prime per candidature inizialmente plebiscitarie (Prodi 2005, Veltroni 2007) e poi effettivamente contendibili (Bersani 2009, Renzi 2013), ma con poca incisività locale stante l’enorme scala nazionale dei risultati; le parlamentarie per il tempo ridottissimo a disposizione, il mese di dicembre 2013 tra Natale e Capodanno.
Quali che siano le motivazioni, nazionali o locali, che hanno indotto la dirigenza varesina a rompere con la passata tradizione di primarie “convenzionali” e ad annunciare sin dallo scorso febbraio un nuovo percorso per il prossimo autunno, questa volta nel Pd della città di Varese saranno “Primarie vere”: almeno per il candidato sindaco, con concorrenti in lizza per un posto dentro-fuori in base al gradimento d’un campione significativo dell’elettorato più sensibile e reattivo; mentre per le candidature a consigliere comunale, benché discutibili per “disparità di trattamento”, resteranno i meccanismi tradizionali di valutazione interna agli organi direttivi del partito. E pur mancando ancora il regolamento, che dovrà evitare i clamorosi “incidenti” di altre parti d’Italia, a un anno dai clamorosi risultati varesini del Pd alle Elezioni Europee (42%, il doppio delle comunali 2011), e con l’esplodere della primavera, sono “fioriti” i “preannunci” di candidatura, secondo varie linee e caratteri di distinzione: giovinezza innovativa versus esperienza matura, orientamento movimentista in competizione con indirizzo strutturale organizzato, sino al preannunciarsi delle contrapposizioni di corrente (renziani doc, di prima ed ultima ora, bersaniani convertiti o ex ecc.).
“Fioriti” solo sui giornali, di carta e web, e sui social network, perché – a differenza del passato – con le “primarie vere” non basterà più l’annuncio proclamato per andare al voto, ma serviranno le firme, come per presentarsi alle elezioni ufficiali. E da quello che trapela rispetto alle nuove regole, i requisiti di presentazione delle candidature saranno severi, più severi che per le stesse elezioni comunali: mentre per partecipare al voto comunale a Varese serve il minimo di 200 firme sulla lista, per partecipare alle primarie Pd potrebbero doverne servire 250. E mentre per la partecipazione ufficiale alle elezioni comunali è stato e sarà l’intero apparato di partito a farsi carico della raccolta delle firme e della presentazione al Comune, alle primarie ciascun candidato dovrà arrangiarsi da sé, con proprie risorse di propaganda ed una propria individuale organizzazione del consenso, in grado di sfruttare al meglio i tempi ristretti a disposizione: 1, massimo 2 mesi.
Una vera sfida a dimostrare le potenzialità personali di successo elettorale di ciascun candidato, che dovrà poi gareggiare con gli altri e superarli nel consenso. Se si pensa che il totale degli iscritti del Pd varesino è intorno alle 250 persone, tutto la forza del partito basterebbero appena per un solo candidato alle primarie. Quanti più candidati si presentino, tante volte dovrà essere moltiplicato il contingente attuale degli iscritti: con quattro candidati dovrebbero essere raccolte 1.000 firme, 1.500 con sei e così via. E non sarebbe né poco impegnativo né poco significativo come firmare una petizione, ma diverrebbe un modo per allargare notevolmente il bacino degli iscritti; senza contare quelli che si aggiungeranno andando a votare alle primarie, grazie all’effetto-traino della competizione come tale. E poggiandosi su questa base di fermento popolare, in seguito potrebbe essere agganciato il “voto di opinione”.
Dal che si capisce che lo scopo principale delle Primarie non è tanto o soltanto la miglior selezione di classe dirigente di partito, in sintonia con la sensibilità dell’elettorato anziché della burocrazia politica, quindi con migliori chanches di successivo gradimento elettorale. È anche, e soprattutto, la mobilitazione preventiva e tempestiva dell’elettorato, l’inclusione per tempo nell’area partitica – un tempo riservata agli “iscritti” in quanto “militanti” – della preziosa fascia dei “simpatizzanti”, ossia di coloro che non si spingono fino a condividere il senso di appartenenza organizzata a un partito ma ne condividono gli orientamenti di massima, almeno al punto da volere che la selezione di chi andranno a votare alle elezioni ufficiali sia fatta bene, sia corrispondente alle esigenze diffuse e non resti bloccata sulle logiche di apparato.
Una certa allergia popolare alle esperienze di partito in senso stretto ha certo contagiato l’idea delle Primarie, e gli iscritti la avvertono inconsciamente con disagio, come una contestazione preventiva al loro modo di essere e di agire politicamente, come un indebolimento del partito in quanto “comunità” e una sua tendenziale trasformazione in mero “comitato elettorale”, che non serve più ai leader tra un’elezione e l’altra e quindi non contribuisce ad elaborare ed adeguare costantemente la “linea politica”, l’orientamento sulle cose da fare di fronte ai problemi che cambiano. Ma in realtà lo scopo originario delle Primarie è l’esatto contrario: far “respirare” il partito che sceglie di adottarle, costringerlo a misurarsi e sintonizzarsi continuamente sulle sensibilità degli elettori, non dare mai per scontato che i leader emersi in passato, e sulla scena nel presente, siano ancora adeguati per l’elettorato che quel partito rappresenta: insomma, novità delle proposte e continuità dello spirito originario.
Ancora, molti iscritti vedono con disagio la competizione interna, tendono a percepirla come guerra fratricida, contraria allo spirito collaborativo che deve caratterizzare ogni “comunità”. Preferirebbero candidature uniche, cosicché la votazione preliminare fosse di consacrazione di leader naturali, di conferma di certezze incrollabili, di perenne stabilità dentro cambiamenti esterni troppo forsennati per prenderli sul serio. Un disagio che a Varese è serpeggiato nei Circoli Pd dopo l’annuncio di tante ambizioni di candidature: in primis già 4 secondo i mass-media locali, altre magari in arrivo.
Sino alla rinuncia del candidato più importante, il masnaghese Daniele Marantelli, oggi vice presidente della Commissione della Camera per il Federalismo fiscale, già sportivo semi-professionista e con alle spalle una prestigiosa carriera politico-istituzionale fin da giovane, da consigliere di quartiere a capogruppo in consiglio comunale, a segretario politico Pci-Pds-Ds cittadino e provinciale, poi a consigliere regionale, fino a deputato da tre legislature e quindi prossimo a fine mandato nel 2018 (o prima, se il Parlamento cessasse anticipatamente), stante il dogma della segreteria Renzi di non superare i tre mandati parlamentari. Rinuncia clamorosa, con strascico di spiacevoli polemiche con la segreteria cittadina Pd che – secondo le dichiarazioni ufficiali – gli aveva comunicato espressamente quel che già i mass-media locali avevano pubblicato: non poteva essere “candidato unico” del centro-sinistra, come ipotizzato mesi prima, causa l’emersione di altre auto-candidature, non altrettanto note né da altrettanto tempo così autorevolmente incardinate nella tradizione storica del Pd e del centro-sinistra varesino, ma comunque dotate di autonoma dignità, meritevole di riconoscimento anche per la novità in sé. Senza trascurare che in caso di “primarie di coalizione” sarebbero automatiche le candidature di esponenti delle liste collegate.
Si rinvia ad altro contributo una riflessione d’opportunità sulle “primarie di coalizione” (e sugli effetti futuri per i ruoli di Sindaco/Giunta/Consiglio). Qui si può comprendere l’orgoglio ferito dello storico combattente di prima linea ma, come ha subito dopo ricordato il segretario regionale Alfieri, nessuno può impedire a militanti Pd – e persino a non iscritti, in caso di “primarie di coalizione” – di candidarsi: dopo Renzi le cariche pubbliche “sono contendibili”.
Il bello delle primarie, potremmo proprio dire: è quando il gioco si fa duro che i duri devono cominciare a giocare. Alfieri conclude con l’invito a Marantelli a candidarsi: al momento in cui scriviamo, non sappiamo ancora se l’invito a ripensarci sarà accolto, e dopotutto siamo ancora nel campo del virtuale, non essendo uscito il regolamento e non essendo state formalmente indette le primarie cittadine. Daniele Marantelli potrebbe dare ancora molto a Varese, non essendo ricandidabile al Parlamento ed essendo ancora pieno di frenetiche energie: concorrere per Sindaco a Varese sarebbe la formidabile conclusione d’una ricca carriera politica nelle istituzioni, ma quale che sia la sua scelta finale resterà intatta la sua centralità e rilevanza morale e politica per il centrosinistra varesino.
Dal percorso del Pd, un rilievo conclusivo per qualsiasi partito: le Primarie non sono un idillio, ma se ben fatte restano un’occasione per tutti. Soprattutto per galvanizzare quel partito che ha il fegato di indirle: sia per una selezione partecipata della sua dirigenza politica sia per mobilitare gli iscritti, i simpatizzanti e le varie fasce d’elettorato, con quanti più candidati si rendano utili per coinvolgere la parte più ampia e articolata possibile della cittadinanza. Non è interessante la gara in sé tra candidati, ma i diversi “mondi” – economico-sociali, culturali, generazionali, territoriali, relazionali – che i candidati possono rappresentare per farli convergere su chi vincerà: non tifo settario, ma partecipazione allargata prima, lealtà e collaborazione poi.
Non sono né una lotta né una partita di boxe, ma piuttosto una corsa dove si parte divisi – seppur poggiandosi sull’identità valoriale condivisa e su una base comune di linee-guida programmatiche, da declinare secondo le rispettive sensibilità –e si arriva uniti. Perciò è auspicabile che ci sia un discreto numero di candidati: se rimangono fair play, buona fede, apertura reciproca e senso d’appartenenza, in tempi di astensionismo diffuso è il modo migliore per promuovere, con discussione e confronto a vasto raggio, consenso ampio e partecipazione democratica.
You must be logged in to post a comment Login