C’è un compito che tutti i candidati a tutte le istituzioni elettive dovrebbero fare per prepararsi al loro ruolo: leggere bene il libro “La lista della spesa” di Carlo Cottarelli (ex commissario alla spending review). Un libro divulgativo, serio, non scandalistico, che offre l’idea di come sia possibile domare la bestia nera della spesa cattiva. Non piacerà né ai qualunquisti per i quali “la spesa pubblica è spreco”, né ai difensori dello status quo per i quali “Se si taglia la spesa pubblica si distrugge il welfare State”.
La difficoltà più dura dei tagli sta nel fatto che il 43% della spesa primaria del 2013 è quella degli enti previdenziali, tra le più alte al modo rispetto al PIL. Siamo un “Paese per vecchi”, anche per ragioni positive. Ma la causa principale è dovuta alla “generosità”, squilibrata, impropria, eccessiva del sistema pensionistico applicato per moltissimi anni. Le riforme Amato (1992), Dini (1995) e Fornero (insieme a lacune ed errori anche gravi) hanno corretto la rotta ma i vantaggi si risentiranno fra molto tempo.
La spesa pubblica è in continuo aumento? No, basti qualche dato complessivo. Dal 2009 al 2013 la spesa dei Comuni si è ridotta del 4%, quella delle amministrazioni centrali del 5%, quella delle Regioni (esclusa la sanità) del 17%. Il fatto è che si è soprattutto tagliato in modo lineare (cioè nel modo più facile) senza distinguere sempre fra necessità e inutilità, fra istituzioni virtuose e sprecone.
Nelle amministrazioni locali le differenze eclatanti e storiche di inefficienza, disorganizzazione, clientelismo si trovano con un certa regolarità geografica. Le Regioni del Nord spendono meno di quello del Centro e quelle del Centro meno di quelle del Sud. L’applicazione dei costi standard con rigore e tempi certi (anche nella sanità) è la ricetta giusta. Ma in prospettiva bisognerà tagliare almeno metà delle Regioni esistenti e intervenire pesantemente sulle aggregazioni comunali.
Essenziali sono le unioni dei Comuni, le forme di cooperazione da incentivare, i centri di spesa da concentrare drasticamente. Uno dei tanti nodi da sciogliere consiste nella riduzione delle aziende municipalizzate o partecipate (di più delle 8.000 di cui si parla) che non hanno più ragione di esistere: o si privatizzano, o si associano, o si dismettono completamente.
Ma la sorpresa (?) più grande viene dall’infinità di sedi statali dislocate in tutta Italia con numeri impressionanti: 5.700 sedi territoriali dei ministeri più 3.900 uffici vigilati dagli stessi ministeri con un forte scoordinamento complessivo. Il più delle volte operano con modalità e contrattualistiche diverse fra loro. Una selva oscura che contribuisce a dare lo stipendio a tre milioni 250 mila impiegati pubblici (un terzo però va all’istruzione e il 22% alla sanità). Ci sono uffici sovrabbondanti ed alcuni con scarso personale, ci sono palazzi occupati dal “niente”, un patrimonio inestimabile lasciato spesso decadere. Ogni tentativo di razionalizzazione solleva ondate di proteste e di scioperi.
Si sta cercando giustamente di riformare la seconda parte della Costituzione ma dev’essere solo la premessa di un’opera di ristrutturazione e semplificazione della presenza operativa dello Stato. Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella continuino pure a fustigare gli enti territoriali. Si domandino però qualche volta perché è più facile per loro fare questo lavoro che penetrare i meandri dell’amministrazione centrale con dirigenti onnipotenti e senza volto che costituiscono una lobby imbattibile. Forse capirebbero che tornare al centralismo statale è la peggiore delle cure.
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