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Cultura

CHIESA GESTORE D’ARTE

SERGIO REDAELLI - 12/06/2015

Il museo Baroffio e del Santuario al Sacro Monte

Il museo Baroffio e del Santuario al Sacro Monte

La Chiesa, a Varese, si conferma affidabile custode dei tesori d’arte che riceve in donazione e del messaggio che l’arte esprime. Lo dimostra l’accorta gestione dei patrimoni che Guido Cagnola, Lodovico Pogliaghi e Giuseppe Baroffio le hanno affidato nel secolo scorso: i primi due a favore della Santa Sede, il terzo al santuario di Santa Maria del Monte. Una lettera del 1899, conservata nell’Archivio della villa di Gazzada (epistolario, cartella 3, fascicolo 1) conferma che Pogliaghi e Cagnola si conoscevano: il primo scultore, pittore, collezionista e gran viaggiatore; l’altro diplomatico, critico d’arte e per oltre un quarto di secolo sindaco di Gazzada.

Chiara Nicora fa notare in un volumetto edito da Morcelliana che molti elementi accomunano i due mecenati: l’ambiente milanese in cui crebbero e in cui formarono i propri interessi artistici e culturali, il liceo Parini che frequentarono, lo stretto legame d’affetto con Varese, la lunga vita che si concluse per entrambi a novantatre anni e, soprattutto, l’aver donato le proprie collezioni artistiche alla Santa Sede. Con Visconti Venosta e i fratelli Bagatti Valsecchi appartenevano al movimento culturale attivo a Milano alla fine dell’Ottocento.

Per entrambi la donazione fu il punto d’arrivo, ma nel caso di Pogliaghi la trattativa fu molto complicata. A favorire il gesto furono i rapporti con Achille Ratti, futuro papa Pio XI. Si erano conosciuti nel 1904 durante una gita sul lago di Como quando Ratti era prefetto della Veneranda Biblioteca Ambrosiana e sentendolo parlare, Pogliaghi incominciò a pensare di lasciare la villa all’ente milanese per farne un museo. Eletto papa Ratti nel 1922, l’Ambrosiana non volle accettare il vincolo dell’inalienabilità e la trattativa si sbloccò solo nel 1937 con l’intervento di Pio XI e l’atto formale di donazione alla Santa Sede.

Pogliaghi aveva abitato nella villa per oltre mezzo secolo e vi morì nel 1950. L’Ambrosiana l’ha riaperta al pubblico il 5 maggio 2014 con la direzione di Giuseppe Battaini. All’interno 1500 opere d’arte varia, 580 pezzi archeologici e il calco in gesso della porta del Duomo di Milano. Scrive monsignor Gianni Zappa che presiede la congregazione dei conservatori dell’Ambrosiana: “Siamo convinti che quanto si spende a favore della cultura sia un investimento lungimirante, anche oggi che le scarse risorse disponibili pongono la necessità di darsi delle priorità”.

La donazione della villa Perabò-Melzi-Cagnola fu preceduta da un fitto lavoro preparatorio. Il 2 aprile 1941 don Luigi Bietti, cappellano della Casa dei Veterani di Turate, aveva conosciuto il conte Cagnola che intendeva trasformare la propria residenza in un istituto culturale e gli suggerì la Santa Sede come destinataria. Monsignor Adriano Bernareggi si fece portavoce a Roma attraverso il sostituto alla segreteria di Stato Giovanni Battista Montini e, a Milano, presso il cardinale Ildefonso Schuster e la Conferenza episcopale lombarda.

Nei mesi che seguirono si svolsero riunioni organizzative per elaborare il progetto di un nuovo edificio e per trasformare la parte rustica della villa in foresteria. Cagnola diede l’assenso nel dicembre 1944. L’attività culturale fu avviata nel 1947 con un primo convegno dell’Ucid e l’8 giugno 1951 fu posta la prima pietra del nuovo edificio, poi completato nel giro di alcuni anni. L’atto della donazione con l’inventario dei quadri, mobili, arredi, preziose ceramiche di famiglia e della biblioteca di ottomila volumi è conservato negli Archivi Vaticani con la firma del cardinale Eugenio Pacelli, allora segretario di Stato.

Il 2 giugno 1946 lo stesso Pacelli, divenuto papa col nome di Pio XII, ricevette il donatore per ringraziarlo e oggi Villa Cagnola – diretta da monsignor Eros Monti – è sede dell’Istituto superiore di studi religiosi, organizza convegni e richiama esperti da ogni parte d’Europa. Esattamente come il donatore desiderava: “Se l’arte ha lo scopo di stabilire legami più intimi nella società e se è l’antitesi dell’egoismo – scriveva Cagnola – colui che è altruista, cui nessun dolore nel suo simile, anzi in ogni essere lascia indifferente, è artista”.

Nato a Brescia nel 1859, Giuseppe Baroffio fu infine nobile per vocazione più che per nascita: acquisì nel 1898 il titolo di barone (il padre era “solo” cavaliere dell’impero austriaco) e ottenne di aggiungere al proprio, il casato dell’estinta famiglia Dall’Aglio. Alla sua morte improvvisa, avvenuta il 2 settembre 1929 ad Azzate dove aveva acquistato Villa Cornelia, tutto il patrimonio andò per lascito testamentario al santuario di Santa Maria del Monte per la costruzione di un museo.

Collezionista intelligente, Baroffio seppe garantire lunga vita e dignità alla sua raccolta che oggi è gestita dalla Fondazione Paolo VI per il Sacro Monte di Varese con la direzione dalla brava conservatrice Laura Marazzi. Non abitò mai al Sacro Monte, ma il legame con il luogo fu evidentemente molto forte se decise di trovarvi anche l’ultima dimora: riposa in una cappella del cimitero insieme ai genitori, al patrigno e alla moglie. Una lapide all’interno lo ricorda come grand’ufficiale dell’ordine della corona d’Italia, commendatore dell’ordine militare dei SS. Maurizio e Lazzaro e console dell’Albania a Venezia.

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