Ricordate la madre di Baltimora? L’energica mamma americana che, avendo visto in televisione il figlio diciottenne in situazione di rischio, corre sul luogo della manifestazione, lo strapazza malamente e poi, presolo per le orecchie, se lo trascina a casa. Ai giornalisti dirà che voleva solo evitare al figlio la brutta fine di altri giovani di colore, feriti o addirittura morti negli scontri con la polizia. Niente di pedagogico, ovvero di educativo intenzionale, come invece si erano affrettati a ripetere i mezzi di comunicazione del nostro paese. Accompagnati dall’esultanza di alcune madri che in quei giorni hanno telefonato alle radio o scritto alle pagine dei quotidiani per affermare che, sì, quelle sono delle vere madri! E che bisogna ricominciare a farsi sentire in modo più efficace dai propri figli.
Detto con sincerità, non ho minimamente condiviso l’entusiasmo delle mamme italiane che, solo ora, dopo il plateale avvenimento di Baltimora, trovano il coraggio di affermare la loro vera pedagogia di riferimento: un bel ceffone ogni tanto, che male c’è, in fondo è dovere di ogni madre fermare un figlio che sta sbagliando. Il mio senso pedagogico invece mi ricorda che ogni individuo, raggiunta la maggiore età, dispone della libertà di sbagliare. Come è successo a noi, a quella stessa età, e come succede da sempre agli adolescenti maggiorenni e ai giovani adulti che iniziano a differenziarsi dai genitori.
All’età di diciotto anni, un ragazzo o una ragazza trovano difficile accettare un’irruzione del genitore nel gruppo degli amici. Il giovane di colore avvistato in Tv è senz’altro un agitatore, forse anche un emarginato pronto a usare la violenza; è possibile che non abbia ancora imparato a discernere i pericoli e le situazioni che potrebbero compromettere la sua vita futura. Ma quale concetto di sé, quale autostima avrà un giovane riportato a casa dalla mamma? Per non parlare di quello che diranno di lui gli amici e i compagni del quartiere, dell’amico strappato a viva forza mentre stava conducendo una battaglia, giusta o sbagliata, con loro. Cocco di mamma, bebè, smidollato?
Capisco bene il punto di vista materno: naturale voler evitare al proprio figlio di cacciarsi in guai grossi. Soprattutto se si vive in ghetto e si è poveri e soli. Naturale e comprensibile, però poco condivisibile.
Mi ha colpito di più, in questi giorni, il padre disperato di Domenico Maurantonio, lo studente caduto dal quinto piano durante una gita scolastica a Milano. Avrebbe forse dovuto pentirsi di avere concesso al figlio il permesso di partire con i compagni di classe? L’uomo, pur straziato dal dolore per la disgrazia ancora non chiarita, ha detto ai giornalisti che ”Un figlio non si può tenere al guinzaglio, allora lo si mette alla prova, lo si aiuta a fare scelte responsabili …”.
Due riflessioni. La prima, pedagogica: da “grandi” si sbaglia da soli, non si può dare sempre dare la colpa a mamma o a papà dei propri errori, anche quando gli errori siano causati dalla loro incompetenza educativa. Non sempre poi, un genitore sa che cosa è meglio per il proprio figlio, quando questi è adulto, anche solo secondo la legge. E non sempre un genitore ha il diritto di scegliere ciò che ritiene giusto per lui (o per lei). La seconda, sociologica: ma dove sono i padri? Qualche decennio fa avremmo visto un padre, non una madre, correre a strappare il proprio figlio dalle barricate. Perché non c’era il padre a recuperare il figlio? Questo mi colpisce e mi preoccupa: una madre che affronta da sola un compito così gravoso, dopo essersi occupata dalla nascita, in prima persona, dell’accudimento materiale, e non solo, del proprio figlio. Abbiamo sentito tante conferenze di esperti sull’assenza dei padri, sul loro ridotto ruolo sociale rispetto al passato, quando era riconosciuto il suo compito di guida verso la conoscenza e l’appropriazione del mondo fuori dalla casa. Dovremmo parlarne di più.
Poi una terza (non preventivata) riflessione: siamo sicuri che ceffoni, tirate di orecchie e strattoni sono strumenti educativi efficaci? Davvero qualcuno crede che l’autorevolezza di un genitore si misuri con le mani e non invece con il dialogo, difficile, a volte inconcludente, ma pur sempre da privilegiare?
Un valore da non perdere in nessuna circostanza.
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