Conobbi Luigi Zanzi durante una riunione conviviale organizzata – non ricordo bene – se dal Rotary o dal Lions – una sera dell’inverno del ’74 o ’75.
Il Regno Unito, la Danimarca e l’Irlanda erano entrate da poco nella Comunità Europea e gli organizzatori desideravano conoscere quali fossero i sistemi scolastici dei paesi “nuovi entrati”, quale fosse il ruolo dell’istruzione e dell’educazione nella costruzione dell’Europa. Invitarono il prof. Luigi Zanzi, convinto federalista e me, che insegnavo alla Scuola Europea.
Al termine della cena, mi toccò aprire la conversazione. Mi limitai a dire che con l’ingresso dei nuovi tre paesi si aprivano insoliti scenari anche nel campo dei sistemi scolastici. Infatti, accanto a sistemi fortemente centralizzati,come il nostro e quello francese, venivano ad instaurarsi sistemi fortemente decentralizzati come quelli gallesi, inglesi e gallesi.
Aggiunsi che i paesi neo-latini non avevano nulla da temere dall’ingresso dei nuovi paesi perchè le amministrazioni nazionali erano molto gelose delle loro prerogative in campo scolastico e non avrebbero mai ceduto alla Comunità parte della loro sovranità in questo settore. Conclusi auspicando che il nostro paese accordasse maggiori autonomie alle regioni in campo d’istruzione tecnico-professionale, il che mi attirò una pesante strapazzata del provveditore Solerte, pure lui presente al convito.
La parola passò quindi a Zanzi, il quale, citando una famosa espressione di Jean Monnet,
espresse il parere che per unire l’Europa sarebbe stato bene incominciare dalla cultura, anziché dall’economia. Fui ammirato dall’esposizione lucida e piana del professore. In pochi minuti espose la natura dialogica del pensiero europeo, ove due tipi di pensiero sono inseparabili nel loro antagonismo: la fede e la ragione, il dubbio e la religione. Si soffermò sul pensiero di Altiero Spinelli: una federazione di stati, ognuno dei quali doveva conservare la propria identità culturale, che si doveva integrare con l’umanesimo, l’europeismo e l’ascesa progressiva di una coscienza planetaria.
Iniziò quella sera una rispettosa comunanza di ideali con Luigi Zanzi: lui sollecito ad invitarmi alle iniziative organizzate dal Movimento Federalista, io a chiedergli collaborazione per gli incontri dell’Associazione Europea degli Insegnanti. La vicinanza si fece più discontinua, dopo il 1990, quando io lasciai Varese. Lo rividi, sei anni dopo, durante un memorabile convegno di studi organizzato a Villa Cagnola sul tema del contributo dei cristiani per la costruzione del federalismo europeo.
Mi sono sovvenuto di questi ricordi lunedì scorso partecipando alle esequie di Luigi Zanzi nella Badia di Ganna, l’antico monastero-ospizio risalente all’XI secolo, per la cui acquisizione e restauro egli aveva fondato un’associazione al fine di riscoprire le tracce antiche e nel contempo conservare i segni dei suoi antenati da sempre appassionati alla tutela della Badia.
Nella chiesa, gremita di amici, colleghi, autorità e di tante persone, riflettevo che l’europeismo di Luigi Zanzi era così stato fervente, convinto e fecondo perché le sue pluriformi radici culturali erano germogliate dal seme rappresentato dal suo amore per la nostra terra, traevano linfa vitale dalla sua cultura e si erano ramificate nella passione per la montagna, per il nostro Sacro Monte, per la vita sociale della città.
La montagna per Zanzi non rappresentava una semplice evasione e un espediente per rafforzare il suo già maestoso corpo. Essa gli appariva come un mondo ascensionale che esprimeva con l’asprezza delle sue rocce e con i semplici ed incantevoli segni della natura il simbolo dell’aspirazione di ogni uomo “vivo” teso nello sforzo di superare se stesso.
Ebbi conferma di questo mistero di simboli e di richiami all’Alto, che la montagna evoca, ascoltando, forse un mese fa o poco più, la trasmissione domenicale “Uomini e profeti”, durante la quale il “montanaro” Zanzi raccontò – con la sua nitida voce che non faceva certo presagire l’imminente distacco da questa terra – come la montagna riuscisse a placare in lui qualsiasi sofferenza e a ridurre la distanza che lo separava dal Creatore.
Dall’amore per il nostro territorio nacque, inoltre, la passione per il nostro Sacro Monte che portò Luigi Zanzi a condurre i suoi studi verso la portata più vasta, oltrepassando quella storico-artistica, verso quella antropologica-culturale del periodo della controriforma. Frutto di queste ricerche e di studi fu il volume “Sacri Monti e dintorni” (1990) che l’autore dedicò all’amico Antonio Padoa Schioppa (altro convinto europeista) “…in nome della tacita intesa su ciò che in questo mondo rivela indicibilmente ad “altro” affiorante nell’incontro con la sua generosa amicizia”.
Mi si permetta un ultimo ricordo personale. Nel dicembre 2013 offrii al professore un mio saggio su Robert Schuman, uno dei padri fondatori dell’Europa unita. Il professore lo lesse e si offrì di commentarlo durante la presentazione che la Feltrinelli aveva programmato per il mese successivo. Alcuni giorni prima dell’evento, Zanzi mi telefonò per confermare il suo impegno ma mi avvertiva che da recenti esami era emerso che doveva sottoporsi a un intervento chirurgico: era il segnale che la forte fibra del caro professore era stata aggredita dal morbo che l’avrebbe portato all’incontro definitivo con l’Alto. Zanzi non poté essere presente, ma mi inviò un messaggio scritto in cui così si esprimeva: “Viviamo giorni che, quale federalista militante di tutta una vita, non posso qualificare come infelici, perché viene sempre meno quella forza creativa che diede avvio al processo d’unificazione dell’Europa: si profilano sempre più, ahimè, atteggiamenti regressivi, invece che progressivi, in tale processo… I vertici nazionali dell’Europa sono responsabili del malumore che essi stessi suscitano nella popolazione contro l’Europa”. Parole sacrosante!
Nessuno è profeta in patria e non mancarono i soliti denigratori: con la loro melensaggine, ci furono persone che vedevano nelle pluriformi espressioni di vita di Luigi Zanzi un eclettismo da condannare. Se per eclettismo s’intende il tentativo di conciliare pensieri o, peggio ancora, interessi politici talvolta diversi e opposti, costoro non hanno colto la vera cultura dell’uomo saggio che non è semplice erudizione, ma conoscenza ricercata e studiata che è divenuta coscienza.
Lo si accusò di essere un “presenzialista”, ma ci si dimentica che per l’uomo di cultura dispensare il proprio pensiero è un’esigenza al fine di elevare l’animo di tutti.
“È rappresentante di una cultura aristocratica!” lo definirono, ma la cultura, pur essendo patrimonio a cui tutti possono aspirare, è sempre frutto di pochi, oggi più che mai, quando, in ambienti pigri o sonnacchiosi, si tenta di far contrabbandare sotto l’etichetta di “cultura” ogni evento che, anziché far scaturire scintille di energie nuove, avvia verso la superficialità, la banalità, se non la violenza.
Varese deve essere grata a Luigi Zanzi per aver contribuito a darle un’“anima”, la cultura, per farla vivere.
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