L’esito controverso delle Elezioni Regionali e Comunali del 31 maggio ha scatenato il tormentone: dello scontro interno al Partito Democratico tra maggioranza renziana e minoranza di sinistra, dell’aggressione permanente dei mass-media anti-renziani verso il “bullo fiorentino”, del godimento masturbatorio dei naviganti social web anti-renziani in orgasmo gufo-rosiconico da sconfitta PD. Tutti preda del fervore polemico che impedisce di vedere i dettagli approfondendo la realtà, travolti dal fumo lacrimogeno e irritante dell’immediatezza e incapaci di assaggiare l’arrosto agro-amaro del percorso politico che ha costruito in concreto i risultati elettorali.
Soccorre già ad un opportuno distanziamento razionale la prima analisi del voto che l’Istituto Cattaneo di Bologna, da decenni la più accreditata fonte d’osservazione elettorale, ha pubblicato all’indomani delle elezioni. Non c’è ancora l’esame dei flussi statistici, ma solo delle variazioni aritmetiche nel tempo da un’elezione all’altra, e tuttavia se ne deduce già abbastanza da confutare tante prese di posizione emotive e approssimative. Specialmente se vi si aggiungono ulteriori rielaborazioni elementari, confrontando i dati delle regionali 2015 con quelli precedenti del 2010 (mio ricalcolo da tabelle di Repubblica.it/static).
L’astensionismo, anzitutto: non è funzione della delusione per l’operato del Governo a guida Renzi o per il venir meno della rappresentanza proporzionale delle tante identità politiche dell’elettorato, frutto di presunte tendenze anti-democratiche da “uomo solo al comando”. Piuttosto, dipende dalla maggiore o minore credibilità-attrattività del singolo tipo di elezione in un contesto di progressiva tendenziale diminuzione della partecipazione al voto, segno di graduale crescente disaffezione popolare verso le istituzioni politiche dagli anni ’90 ad oggi. Che ha visto l’acuirsi verso il basso dopo il 2008, con l’esplosione della crisi economica e la percezione dell’inutilità della politica come arma collettiva per il benessere comune, quale che sia il livello di governo: regionale con gli scandali a ripetizione, nazionale con l’indecisionismo stabile, europeo con l’irrilevanza italiana nelle strategie di Bruxelles. Come se tutta la politica sia diventata solo “fumo”, chiacchiere e distintivo, senza traccia di “arrosto”, occupazione-reddito e servizi ai cittadini.
In un contesto di altissima partecipazione al voto ad inizio degli anni ’90, sia in tutt’Italia sia nelle sette Regioni in cui s’è votato il 31 maggio, le elezioni regionali erano le più frequentate (dall’83% della Campania al 93% del Veneto), perché le Regioni rappresentavano la speranza di un cambiamento virtuoso dell’Italia; le elezioni europee erano meno partecipate (70-90%), perché l’Europa Unita era un fantasma lontano ed evanescente; le elezioni nazionali per il Parlamento le meno praticate in genere (80-85%), perché il flagello di Tangentopoli ed il crollo dei partiti popolari di massa aveva delegittimato la classe politica statale. Da allora ad oggi, con il passaggio alla cosiddetta Seconda Repubblica la partecipazione al voto è andata sì costantemente riducendosi, ma man mano le proporzioni tra elezioni diverse si sono ribaltate: le Regioni hanno perso fiducia popolare e credibilità nel loro insieme, l’Unione Europea è diventata sempre più incisiva nella vita nazionale e locale, il Parlamento italiano è divenuto aspro e spettacolare campo di battaglia politica come video-game permanente in cerca di audience nei talk show. E così, seppure in retromarcia rispetto alla Prima Repubblica, le elezioni per il Parlamento nazionale han conquistato la ribalta (70-80%), in teatri di partecipazione elettorale sempre più piccoli ma sempre più rumoreggianti. Lasciandosi nettamente alle spalle le elezioni regionali (35-37% nel 2014, 48-57% quest’anno), largamente superate anche dalle risorgenti elezioni europee (50-74%).
I risultati di partito, poi: per capire successi e fallimenti, vengono confrontate da tutti le elezioni regionali 2015 con le elezioni europee del 2014 e le elezioni per il Parlamento nazionale 2013, come se fossero macedonia di frutta anziché pere comparate alle mele e mele comparate alle banane per capire se ha più successo tra i consumatori la Chiquita o la Melinda. Nessuno entra nel merito dell’unico confronto sostenibile: quello tra le elezioni regionali attuali e quelle del 2010. Così si imputa al PD renziano di aver perso 2.143.003 voti dalle “mitiche” elezioni europee ad oggi (meno 50%), e 1.083.557 dalle votazioni per il Parlamento nazionale due anni fa (meno 34%); trascurando la specificità localistica e la personalizzazione spinta delle elezioni regionali, piene zeppe di liste civiche e di liste-civetta “nobili”, ossia di liste personali dei candidati alla presidenza della Regione che si pongono in aiuto e non in concorrenza con la lista di partito.
Non solo, ma si trascura soprattutto il rapporto invertito che esiste alle elezioni regionali tra voto di preferenza individuale e voto di lista: nonostante alcune differenze di sistema elettorale tra una Regione e l’altra, in tutte si vota principalmente per la persona-candidato alla presidenza e secondariamente per uno dei partiti che lo sostengono (si mette la croce innanzitutto sul candidato-presidente, e se la si mette solo sul simbolo di partito vale anche per il candidato-presidente), al contrario che per le elezioni europee e le elezioni per il parlamento nazionale, dove si è sempre votato in primo luogo per il partito e solo secondariamente si è aggiunta la preferenza per uno o più candidati di quel partito. Questo fa sì che mentre alle elezioni europee e nazionali i voti per ogni partito sono tanti e le preferenze per i singoli candidati sono poche, alle regionali sono i voti per i candidati-presidenti ad essere tanti e quelli per i partiti sono di meno: per cui non ha senso confrontare i voti a un partito nelle regionali con quelli a un partito nelle elezioni nazionali ed europee.
Ma non ha senso anche per la frammentazione di voto alle regionali tra partito principale e liste collegate, anzitutto quelle che riportano il nome del presidente. Che cosa si conteggia come numero di voti del partito, solo quelli denominati con la sigla specifica di quel partito o almeno anche quelli della lista intestata al candidato-presidente? E le “liste collegate”, che alle elezioni nazionali ed europee non esistono, non definiscono anch’esse il bacino di voto per quel partito, non si deve ritenere che certamente alle elezioni europee, ma presumibilmente anche a quelle nazionali, si tradurranno in voto diretto a quel partito? E allora perché non conteggiarle nel confronto tra elezioni diverse?
E infine: se l’aumento dell’astensionismo è un fenomeno trasversale a tutti i partiti, ha senso calcolare le perdite in valore assoluto per il singolo partito o non bisognerebbe tener conto soprattutto delle variazioni percentuali del voto?
Proviamo ad applicare queste considerazioni al principale partito oggi sulla scena, il PD, su cui si sono concentrati gli strali polemici dei commentatori del voto regionale. Se si considerano alle regionali non solo i voti al simbolo-PD ma anche quelli alle liste immediatamente collegate, la perdita di voti nel 2015 scende già a 1.714.063 rispetto alle europee (meno 40%) e a 654.517 rispetto alle nazionali (meno 20%). Ma se si aggiungono i risultati delle liste collegate, la perdita del PD rispetto alle europee si assesta a 1.262.006 voti, pari al 30%; mentre rispetto alle nazionali la perdita è di 202.560 voti, pari al 6%. Non che il partito di Renzi abbia da rallegrarsene in termini di consenso, ma nel valutare il calo deve tener conto dell’aumento trasversale dell’astensionismo, che il 31 maggio è salito del 14% rispetto alle europee e del 31% rispetto alle nazionali. In questo senso, il calo vero è soltanto rispetto al magico exploit delle europee del 2014, mentre già rispetto alle nazionali del 2013 il calo del PD è leggermente inferiore alla media. Quindi, a meno che si voglia addebitare al Governo Renzi tutto il fenomeno dell’astensionismo, è solo il confronto impietoso con le “esagerate” elezioni europee che dà un tono negativo al livello attuale del consenso PD.
Meglio ancora se consideriamo il vero e unico confronto ben fondato, quello con le elezioni regionali del 2010. Anche solo calcolando le liste direttamente riferite al PD, il calo è di 188.656 voti, cioè del 7%; mentre considerando anche le liste collegate, il consenso complessivo verrebbe ad aumentare. Considerazioni analoghe di ridimensionamento del presunto crollo valgono anche per il polo di centro-destra, se non si isola nominalisticamente il risultato di Forza Italia e si tien conto delle scissioni nel frattempo intervenute, prima con NCD e poi con Fratelli d’Italia. Ed in questo senso l’esplosione della Lega è soprattutto un movimento interno all’area del centro-destra, con fasce di elettorato che – attratte da una leadership nuova e demagogicamente aggressiva – si sfogano delle frustrazioni della crisi, spostandosi dalle posizioni più moderate di Forza Italia a quelle estremiste della Lega Nord di Salvini, ormai in rampa di lancio dalle brume settentrionali al sole mediterraneo.
Al netto delle revisioni statistiche e dell’imbarazzante scelta di alcune candidature – specialmente in Liguria, con una specie di Regina della Notte, forse pronta a inciuci d’ogni sorta; e in Veneto, con la più bella di tutte le top model che Renzi ha lanciato in copertina, ma anche sfocata; più la rogna campana, con le disgraziate vicende giudiziarie di De Luca – la perdita d’impulso del PD renziano è evidente. Ma, a causa dei giochi delle alleanze locali, va interpretata soprattutto come stasi dell’egemonia sull’area di sinistra e a sinistra del PD. Si deve ricordare che tutti i presidenti di regione di centro-sinistra includevano la Sinistra della foto di Vasto, dal SEL di Vendola all’IDV ex Di Pietro. È proprio qui che si verifica il calo maggiore: ad esempio, in Puglia la sinistra-sinistra passa dai 301.986 voti di SEL del 2010 ai 108.920 voti di “Noi a sinistra” del 2015, mentre il PD di Emiliano aumenta i voti diretti di 62.321 e quelli collegati di 130.687. Nello stesso “sventurato” Veneto della Moretti sono spariti i 119.396 voti dell’Italia dei Valori, ben poco sostituiti dai 26.896 di “Veneto Civico”; mentre lo stesso PD della ex-portavoce di Bersani perde sì il 17% rispetto al 2010, ma è quasi la metà di quel che perde SEL cedendo il 26% dei suoi voti.
È quindi l’ala sinistra della squadra renziana che perde colpi, a tutto vantaggio del Movimento 5 Stelle, verso cui si muovono gli ex SEL ed ex IDV. Tutta colpa del Renzi destrorso demonizzato da Vendola? O è la sinistra-sinistra che non sa più attrarre il proprio elettorato e trasferisce il voto utile a M5S? Insomma, sembra che Renzi non riesca più a tappare i buchi lasciati da SEL e IDV come aveva fatto alle europee con la “speranza” contrapposta alla “rabbia” di Grillo. Questa volta Grillo non si è fatto sentire, sostituito dai ben più ragionevoli Di Maio e soci, e a soffrirne non sono stati i seguaci pentastellati, ma proprio Renzi, cui è venuto a mancare il nemico migliore. Ci si aggiunga la difficoltà del governare e la sproporzione rispetto a troppe promesse di velocità realizzativa lanciate l’anno scorso. Più ancora che lo sconcerto popolare per una linea politica liberal-democratica, che vorrebbe superare lo stantio sentore di socialdemocrazia asfittica e pansindacalista, più dello scontro con le componenti di sinistra del suo schieramento – dal Job Act così pragmatico, alla legge elettorale troppo semplificatrice ed efficientista, alle frustrazioni pluridecennali degli insegnanti peggio pagati d’Europa, sino alla sudditanza solo simbolica ai diktat della Corte Costituzionale per rivalutare anche le pensioni d’oro – Renzi sembra pagare le aspettative troppo alte di ripresa e sviluppo che lui stesso ha suscitato, come se i tempi tecnici non esistessero.
Non avendo fatto abbastanza miracoli in un batter di ciglia, chi li aspettava si mostra deluso e rinuncia al voto; oppure rientra alla comoda base di destra, intrigato ed eccitato da roboanti grida salviniane; o rischia lo spavaldo dilettantismo pentastellato. Certo non si rivolge ad incerte coalizioni sociali che rischiano di riproporre la sinistra perdente, ormai a tutti venuta a noia. Se agli italiani le tante promesse sembrano ormai più fumo che arrosto, a Renzi non resta che fare davvero sul serio e nei tempi giusti. Se veramente arriverà al 2018, lo faccia per bene e con donne e uomini adeguati, e il consenso ritornerà.
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