“Che ne è della vita in questo vivere?” Questa frase di Nietzsche risuona in me da quasi mezzo secolo, l’arco di tempo trascorso dai miei primi mesi di studente universitario. Non l’ho trovata leggendo una sua opera, ma sfogliando alla Biblioteca comunale di Milano qualche libro sui presocratici, stimolato dal seminario di storia della filosofia antica condotto dal professor Arrigo Pacchi. Mi ha colpito, e non mi ha più lasciato.
Con il tempo le risonanze sono cambiate, ed è normale che sia così. Sul finire degli anni ’60 e nei primi anni ’70 una parola corrente era “autenticità”; non parlo solo del linguaggio specialistico della filosofia, dove si è diffusa soprattutto grazie ad Heidegger, là dove oppose l’autentica familiarità tra la vita dei singoli enti e l’essere all’inautenticità del vivere sotto il dominio della tecnica, ma proprio e soprattutto del linguaggio comune, con la sua accezione più banale, meno densa e poco riflessiva, come equivalente di sincerità, genuinità e spontaneità, di libertà di esprimere le inclinazioni e le passioni, di liberazione dalle barriere formali frapposte alla vita da una civiltà ritenuta alienante.
Se il nostro vivere presente si rivela inautentico, evidentemente deve esservi stata un’epoca in cui la vita era autentica, o quanto meno più autentica. La domanda inesorabilmente finiva per scivolare dal presente verso il passato. Proprio Nietzsche nella sua teoria dell’eterno ritorno aveva agevolato questo scivolamento: incamminarsi verso il futuro equivaleva a un ritorno al passato entro nuove forme.
Da molti anni questa risonanza si è spenta. Riascoltarla con le orecchie di allora mi risulta impossibile. Non credo – schematizzando molto – che il contrasto tra autenticità e inautenticità riguardi la dimensione spaziale e temporale, il dove e il quando della storia, bensì attraversi semmai ogni epoca, ammesso e non concesso che sia possibile isolarne una. La comparazione con il passato è poco utile, anche perché non può sfuggire a un largo margine d’arbitrio: i canoni, i criteri, le griglie con i quali guardiamo al passato sono quelli del nostro tempo; non posso attingere per esperienza diretta quelle che furono l’autenticità e/o l’inautenticità di altre epoche passate e di altri contesti scomparsi senza rimedio. Meno che mai può servirci l’ombra retrostante di un Paradiso perduto o il luccichìo di un Paradiso da ritrovare.
Meglio riformulare quella domanda – e in particolare il suo incipit – “Che ne è”, che implica chiedersi dove sia andata a finire la vita in termini più semplici, ma a ben guardare non meno ambigui: “A che titolo parliamo di vita in questo vivere?” Una riformulazione meno ambigua, ma forse troppo riduttiva, perché investe e concerne l’individuo elevato a “misura di tutte le cose”, potrebbe essere questa: “fino a dove corrisponde la mia vita, nella mia singolarità irriducibile, a questo vivere,ai quadri condivisi della vita nell’arco temporale e nel contesto spaziale che è proprio, se non dell’universalità, almeno delle moltitudini?” Il fatto è che solo questo ambito ridotto ammette percorsi giovevoli a tutti.
Come che sia, e in qualunque modo riformabile la frase di Nietzsche, quella domanda esprime la più forte interrogazione esistenziale del nostro tempo, e probabilmente sarebbe stata cruciale anche prima, se solo qualcuno si fosse interrogato chiaramente in proposito (il solo che mi sembra esservisi avvicinato è Michel de Montaigne, per noi contemporanei un maestro spirituale ancora ineguagliato).
Le domande che si pone la filosofia sono in fondo ben poche, e quelle poche oggi ruotano attorno a questo perno. Se non altro questa sembra ammettere una risposta, come non sono più in grado di fare altre domande, decisamente più “metafisiche”, come quelle circa il “senso”, il “significato” e il “valore” della vita. E la formulazione di Nietzsche, così diretta, ha una forza perturbante e un effetto di spaesamento quali non ne ha ogni sua variante postuma: una forza e un effetto efficaci e fecondi, proprio perché oggi, in una “società di individui”, risuonano nell’animo di ciascuno a proprio modo. Tutti possono porsela, anche se non tutti sono nell’effettiva condizione di cercare una propria risposta.
Forse però una via c’è, e potrebbe consistere nel suo associarsi a un’altra domanda, questa volta di Kant, ossia alla domanda fondamentale del criticismo: “Che cosa posso sapere? Che cosa posso volere? Che cosa posso sperare?” Kant la formulava a nome dell’umanità nella sua costituzione naturale. Dopo Nietzsche, essa vale, di nuovo, solo se si commisura all’individuo, al singolo; la sua universalità consiste quasi esclusivamente nella necessità, per ciascuno, di scavalcare “il qui e l’ora”, l’immediatezza, per riformularsi oltre la determinazione concreta e circostanziata della singola esperienza biografica.
La pratica della filosofia che può scaturire da questa doppia interrogazione seguita a richiedere il passaggio dalla singolarità empirica, dalla quotidianità determinata con i suoi affanni (un lavoro che non mi gratifica, un figlio che non è motivato a studiare, una moglie che mi appare davanti come un’estranea, lo stipendio che non basta, la bolletta troppo salata…), a una più alta, indirizzata a un’indagine su se stessi e sul proprio agire nel mondo, sul situarsi nelle relazioni, sulla possibilità e la capacità per cercare una strada più propria, meno anonima e conformata, entro cui indirizzare la vita e i suoi obiettivi, i suoi orizzonti. Interrogarsi filosoficamente, in una parola, significa imparare a scegliere.
Vi lascio così, senza una mia risposta. Ciascuno a interrogarsi a suo modo, rudimentalmente, con i mezzi di cui dispone, in cerca della sua propria risposta, a partire dalle proprie risonanze. Siamo tutti autodidatti. Solo dalle vie e dai mezzi individuati in risposta da ciascuno, sarà possibile cercare un varco che dia luogo a un “noi”. Ma ogni apprendistato collettivo, ogni dinamica di riconoscimento e di condivisione sono oggi – occorre saperlo – ben più complessi che in passato. Ma non è compito che possa essere affrontato qui.
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