Non c’è giorno che le odissee disperate dei migranti dalla Libia non eccitino gli strepiti interessati dei megafoni cartacei, radiofonico-televisivi e perfino web della destra italiana, che per darsi l’aura d’algida obiettività s’ingegna da un bel po’ a sfruttare il dilagante mito inglese post-globalizzazione, puntellandosi con l’aplomb e la presunta imparzialità di giudizi e posizioni d’Oltremanica, laddove s’invoca il pugno duro contro l’invasione emergenziale dall’Africa. Così la “perfida Albione” torna ad infierire sulla povera Italia per la sua “quarta sponda”, la costa africana dirimpetto alla Sicilia e isole limitrofe. Non paga d’aver fatto esplodere la Libia di Gheddafi coi bombardamenti aerei del 2011, tirandosi al guinzaglio Sarkozy per spartizione di famelici interessi petroliferi anglo-francesi contro quelli consolidati dell’italica ENI, la Gran Bretagna di Cameron non ha permesso che l’accoglienza a profughi e migranti dal Nordafrica rischiasse di contaminare il suolo inglese, protetta dal malefico trattato di Dublino che – per una volta l’Irlanda ha giocato a favore di Sua Maestà Britannica – inchioda l’Italia alla conformazione geografica di penisola proiettata nel Mediterraneo, prima base d’attracco – a parte Malta – per chi fugge dall’Africa e dalle sue tragedie.
La destabilizzazione della Libia, frantumata tra due governi e 140 tribù (30 politicamente influenti, 7 determinanti), in guerra-guerriglia permanente, ha fatto da trampolino di lancio all’affarismo criminoso dei barconi degli scafisti, con una produttività di trasferimenti illegali che tenderà a raggiungere il traguardo di 270.000 sbarchi quest’anno. La provenienza dei migranti è prevalentemente da paesi in guerra – dove l’interventismo militare britannico ha spesso spadroneggiato – sia del Medio ed Estremo Oriente sia dell’Africa, per i quali è d’obbligo l’accoglienza umanitaria in base alla Convenzione di Ginevra. Ma anche per i migranti economici – in fuga dalla fame anziché dalla guerra e provenienti da paesi ex coloniali o ancora afflitti dal neocolonialismo delle multinazionali, molte delle quali britanniche – la responsabilità storica di spingere flussi biblici di persone ad abbandonare la propria terra ricade assai sull’Impero Britannico vecchio, in punta di baionette dei secoli scorsi, e nuovo, delle multinazionali che trovano nel mercato finanziario di Londra il confortevole centro dell’impero.
Ma il prode Cameron non ne vuol sapere, e ha trionfato alle elezioni inglesi del 7 maggio scorso col messaggio “hard” dei respingimenti in mare, pronto a dare navi ed elicotteri alle missioni europee di contrasto agli scafisti ma ferreo nell’opporsi all’invasione straniera, rifiutando di accogliere Oltremanica nemmeno un profugo libico che sia uno. L’ipocrisia codina dell’Unione Europea, al deludente vertice del 23 aprile, ha evitato di riconoscere che con queste scelte il Regno Unito si pone fuori dall’Europa, fuori dalla civiltà europea, adagiandosi sulle clausole privilegiate dei trattati per dispensarsi dall’accoglienza, insieme ai compagni di merende (con bacon & ketchup) Irlanda e Danimarca. Così l’immane sforzo della nostra Federica Mogherini, insieme al collega greco commissario all’immigrazione, Avramopoulos, per far progredire una politica estera europea comune almeno in materia di immigrazione, ha partorito il topolino delle quote sperimentali di accoglienza, con Cameron esentato, insieme ad un fantomatico piano di contrasto militare navale in Mediterraneo, ove Cameron s’ambisce primattore.
Subito la destra nostrana ha innalzato peana al “coraggio” britannico ed alti lai con contumelie alla debolezza italiana, esitante tra nobili proclami sul dovere morale dell’accoglienza ai migranti e velleità d’affondamento dei barconi in eccesso. “Il Foglio”, il più illuminato dei corifei mediatici di destra, il 30 aprile ha rilanciato l’intervista ad Andrew J. Molan, australiano ex generale ed ex suddito del Dominion di Sua Maestà Britannica, che consigliava benignamente il governo italiano su come affrontare l’emergenza sbarchi in base all’esperienza del governo di Canberra dall’altra parte del mondo. Molan, “special envoy” del nuovo governo conservatore dell’Australia, è riuscito in un solo anno, tra il 2013 e il 2014, a quasi azzerare gli sbarchi di “clandestini” provenienti dall’Indonesia, da 23.000 (con 1.500 morti) a 157. Un successo miracoloso per un problema di immigrazione illegale che pesava sull’Australia, che ha solo 23.000.000 di abitanti, in misura proporzionalmente simile a quella dell’Italia, che nello stesso periodo contava 60.000 arrivi contro 60 milioni di abitanti, e superiore a quella europea, che contava 170.000 arrivi su circa 500 milioni di abitanti.
Come ha fatto Molan? Con l’organizzazione militare dei respingimenti in mare: istituiti nuovi protocolli di sicurezza e nuove regole di ingaggio, la marina militare australiana ha iniziato a intercettare tutti i natanti che cercavano di entrare illegalmente nelle proprie acque territoriali e a respingerle. Garantendo – dicono – la sicurezza dei passeggeri, veniva fatta girare la prua degli scafi, riaccompagnando i natanti oltre il confine delle acque territoriali australiane ed inducendoli a tornare da dove erano venuti. I dettagli operativi sono sempre rimasti segreti, quindi imprevedibili per i trafficanti e fattori di successo: riparazioni dei natanti in alto mare, sostituzioni con navi vuote messe a disposizione dalla Marina australiana, rifornimento di carburante e anche un primo screening dei passeggeri per chi avesse diritto allo status di rifugiato.
Nel caso, peraltro minoritario, di persone che rischiavano la pelle a tornare nel paese da cui erano partite, sono state trasportate “sulle isole di Nauru o della Papua Nuova Guinea, piccoli stati con cui l’Australia ha stretto accordi per ospitare campi attrezzati in cui le pratiche vengono esaminate, con l’aiuto di organizzazioni umanitarie internazionali. Con una sola condizione: quanti arrivati via mare, se giudicati meritevoli dello status di rifugiato secondo la Convenzione di Ginevra, potranno ricevere accoglienza ovunque ma non in Australia“. Concludeva Molan: “Oggi si può dire che il governo australiano non lavora più su commissione degli scafisti, offrendo un ‘servizio taxi’ a criminali cui prima bastava lanciare un Sos a qualche chilometro dalla costa per incassare diecimila dollari da ogni singolo malcapitato passeggero. Gli scafisti, invece, sono ancora i principali autori delle politiche migratorie europee“. Ed il premier conservatore australiano Abbott si è proposto come consigliere accreditato ai governi europei, affinché prendano esempio dal suo approccio. Cameron applaude, l’impronta imperiale inglese rifulge ancora.
Quindici giorni dopo, la BBC Radio rincarava la dose con l’intervista ad un fantomatico sedicente “consigliere” del governo libico di Tobruk (quello riconosciuto dagli occidentali), tal Abdul Basit Haroun, che avvertiva Inghilterra ed Europa sul pericolo di infiltrazioni dei miliziani ISIS del Califfato tra i migranti dalla Libia, d’accordo con gli scafisti. Al di là del probabile interesse del Governo di Tobruk – se davvero il discutibile “consigliere” lo rappresentava – a drammatizzare una situazione già tragica, per enfatizzare il proprio ruolo di amico dell’Occidente e indurre i governi europei a venire a patti per qualsiasi azione da intraprendere, non può essere un caso che l’allarme arrivi ancora una volta da Londra, sostenendo le pretese di Cameron per il pugno di ferro militare ed il rifiuto bellicoso d’ogni forma d’accoglienza euro-italiana verso i migranti, censurata come utopistica ed ingenua.
La perfidia albionica, l’egoismo imperiale britannico, han raggiunto il top. E pure l’imperial spocchia britannica, la pretesa d’aver sempre la ragione dei prodi pragmatici angli contro l’inettitudine dei pavidi inconcludenti mediterranei. Peccato che il modello australiano dei respingimenti in mare sia poco consono alla situazione del Mediterraneo, e quindi inapplicabile. Innanzitutto, la proporzione tra profughi e migranti economici è oggi invertita tra i due contesti: al largo delle coste australiane è minima la quota di profughi che la marineria militare è obbligata ad accogliere e valutare per il riconoscimento dello status di rifugiato, e l’accompagnamento a Nauru e Papua Nuova Guinea è facilitato dal numero ridotto di ospiti a fronte di territori vasti e spopolati, disposti all’accoglienza a causa della subordinazione economica all’Australia e della presenza di governi deboli, proni ad interessi esterni. Al contrario del ruolo neocoloniale dell’Australia verso questi comodi vicini in stato di sudditanza politico-economica, né l’Italia né l’Europa sono in grado di disporre dei territori di paesi sovrani come la Tunisia o l’Egitto per l’accoglienza surrogata dei profughi dalla Libia, mentre è al momento assolutamente impossibile in Libia stessa per la feroce instabilità del paese, dove i campi di raccolta dei migranti in attesa di passaggio sono terribili lager.
D’altro canto, anche tralasciando il problema del costo economico, il blocco navale degli scafi libici deve avvenire non nella vastità oceanica ma in un mare stretto, sotto il controllo di un’opinione pubblica coi fari puntati, che non consentirebbe azioni di forza che mettano a rischio l’incolumità dei passeggeri. Così, nell’ingaggio con gli scafi-carrette sempre in procinto d’affondare, il blocco navale in acque territoriali italiane si tradurrebbe nell’obbligo civile di accogliere a bordo i passeggeri migranti, e davvero le navi militari si trasformebbero in taxi per l’Europa, prima fermata Italia. Mentre in prossimità delle acque territoriali libiche si scatenerebbe l’atteggiamento bellicoso dei due governi libici, anticipato dal recente bombardamento aereo della nave turca che il governo di Tobruk riteneva trasportasse rifornimenti per l’ISIS di Derna. Senza contare i forti rischi di un moltiplicarsi dei penosi casi La Torre-Girone.
Quanto all’infiltrazione ISIS tra i migranti, è l’ennesima bufala inglese, magari in salsa cirenaica. Se davvero ISIS è un’organizzazione così potente e strutturata, chi glielo fa fare di mettere a rischio, su barconi traballanti e precari, preziosi miliziani lungamente addestrati e formati, e dotati di copiosi armamentari di documenti falsi, quando possono facilmente permettersi costosi passaggi legali per rotte aeree o navali ordinarie? Né vale a confutazione il recente arresto a Gaggiano (MI) del marocchino Abdel Majid Touil, su mandato di cattura internazionale della magistratura tunisina per presunta partecipazione alla strage del Museo del Bardo a Tunisi il 18 marzo, da migrante arrivato in Italia con un barcone dalla Libia il 17 febbraio e che poi sarebbe tornato a Tunisi per collaborare a pianificazione ed esecuzione dell’attentato e infine rientrato in Italia da clandestino, chissà come e per quale logica. Anche se non fosse la cantonata tunisina che sembra, uno o pochi casi d’infiltrazione dell’area più smandrappata d’un terrorismo arabo multiforme e faidatè non contraddice l’estraneità sostanziale tra terrorismo jihadista e sbarchi di migranti, come sostenuto anche da Stefano Dambruoso, oggi parlamentare ed ieri magistrato inquirente proprio sul terrorismo jihadista; mentre inficia l’opportunismo strumentale anti-europeo degli inglesi e dei loro fiacchi eppur tonanti emuli italiani.
Se non provenisse da Mario Allaus, cariatide del passato, avventuriero giornalista di regime e bieco commentatore radiofonico, verrebbe da ripeterne il detto abominevole: “Dio stramaledica gli inglesi!“, magari aggiornato all’idioma grillino. Più semplicemente, s’invoca serietà d’approccio, unita ad umanità italiana e civiltà europea.
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