Da Avigno, periferia nord di Varese, a Berlino, dove tra una settimana si svolgerà la finale di Champions League, sono mille chilometri esatti. Ed è da qui, e non da Torino (centocinquanta chilometri da fare in più), che parte il lungo viaggio di Beppe Marotta, dal campetto dell’oratorio della parrocchia di San Giovanni Battista e dalle “giazzére” dello stadio di Masnago “Franco Ossola”. Il viaggio più desiderato, forse; un traguardo importante, ma non l’ultimo, perché nella vita – e nello sport – non può e non dev’essere mai così.
Nessuno, nemmeno Beppe, assiso ai vertici del calcio europeo con la Juventus di cui è oggi uno dei massimi dirigenti, può cancellare il passato. E di certo Beppe non lo vuole. Di quando era un ragazzino sgambettante e le case popolari di Avigno erano state appena costruite, nella Varese degli anni del boom. Di quando, le sere d’estate, lui bimbetto, andava al seguito del fratello più grande, magistrale e dinoccolato “interno” di squadrette “a sei”, impegnate in tornei che avevano come palio soltanto la fantasia: il Real-Daverio, l’Inarzo-Benfica, il Bar della Piazza, il Cantoreggio, il Santos-Valganna… C’erano anche il Marotta – il fratellone, un Rivera del Borgo – e lui, il Marottino.
E poi, studente del liceo classico Cairoli – siamo già nella prima metà degli anni Settanta –; il mattino in classe, chino sui libri di greco, e il pomeriggio allo stadio: raccattapalle, magazziniere volontario, ragazzo… spazzola di uno “squadrone”, il Varese, che spadroneggiava nella B e scalava la serie A. Una squadra tosta, questo tornado biancorosso. L’allenatore era Peo Maroso, che pure abitava tra Avigno e Sant’Ambrogio. Tutto fatto in casa. Il Marottino, capelli folti e riccioluti – anche questo è il segno di un passato che non può tornare – in tuta nera, controllava le borse e chiacchierava dei segreti dello spogliatoio con i “cronisti d’assalto”, più grandi in età di lui, ma di poco, e con una stessa, identica e provincialissima storia di sogni, di tornei serali, di calcio giocato all’oratorio, e del boato del “Franco Ossola”.
È strana la vita. Il cambio di passo per Beppe – che ormai, se non andiamo errati, è già studente di giurisprudenza – avviene con l’arrivo a Varese, primissimi anni Ottanta, di un attempato Mario Colantuoni, avvocato, deus ex machina (e presidente) della Sampdoria. Un mescolamento di cultura, di interessi e di modernità, che però non sempre dice bene. Colantuoni, una vaga somiglianza con l’attore americano George Raft – il gangster di “A qualcuno piace caldo” – prende in simpatia il “ragazzino” riccioluto, gli mette le ali: segretario, direttore generale del Varese Calcio, della stessa squadra dei cui giocatori, fino a qualche anno prima, controllava che tutto fosse in ordine nei borsoni. E poi via, una strada e una corsa che, prima di arrivare a Torino e, tra qualche giorno, a Berlino in tribuna d’onore a fianco di Pavel Nedved e del presidente Andrea Agnelli ad ammirare la Juve e il Barcellona, passa per Monza, per Venezia, per Ravenna, per Bergamo, ancora per Genova…
Se ne sono andati gli anni, e anche i capelli, ma di sicuro è cresciuta l’esperienza. Mai distaccata da un po’ di fortuna, perché ci vuole anche quella. Nella vita e soprattutto nel mondo del calcio. Poi, bisogna dirlo, la corsa continua, sempre. Scriveva di lui, più di trent’anni fa, l’amico Natale Cogliati, indimenticabile cantore del Varese Calcio e ottimo giornalista: “Gli dissero gli amici: ‘Corri ragazzo, corri’. Portava scarpe da tennis, il suo campo preferito era quello dell’oratorio di Avigno. Lo sovrastava il Campo dei Fiori e i ragazzini che gli stavano attorno avevano le sue stesse ambizioni. Solo che lui, Giuseppe Marotta, studente delle medie, guardava lontano, seguiva gli insegnamenti e correva più forte di tutti…”.
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