In uno dei suoi dialoghi più ardui, il Parmenide, Platone ci insegna che ogni concetto forma una costellazione infinitamente variabile con altri che concorrono a definirli nel contempo per compartecipazione e opposizione, per identità e differenza. Così è anche per la delicatezza, una proprietà e una disposizione – a seconda che concerna un oggetto o un modo di agire – tra le meno esplorate dalla filosofia.
Il termine italiano discende dal latino deliciae – tutti i piaceri ricercati con particolare voluttà –, ma contiene uno slittamento di senso: la spiccata connotazione negativa del primitivo impiego latino ha lasciato il posto, nell’uso corrente, ad una principalmente positiva.
Per capire se la delicatezza sia o meno positiva, almeno nel senso odierno del termine, è sufficiente chiedersi se sia desiderabile il suo opposto, che chiameremo indelicatezza, nonostante la sua approssimazione e benché non sia altrettanto ricco di sfumature di significato. È intuitivo che no.
La prima, più elementare attinenza della delicatezza investe il suo rapporto con i sensi, con la sfera percettiva. Per questo motivo, e non solo perché antinaturalistica per definizione, l’estetica è il solo segmento del pensiero filosofico ad avere unanimemente apprezzato la delicatezza. Essa è in quanto si manifesta, ma il suo manifestarsi e il suo darsi all’intuizione sensibile rinviano a loro volta ad altro, a due distinte qualità intrinseche, non necessariamente apprezzate di per sé: la delicatezza di un oggetto – di un tratto o di una sfumatura di colore, di un suono, di un sapore, di un profumo, di una superficie – e del soggetto che la percepisce. I due poli sono in relazione reciproca. Solo chi è delicato, chi si trova nella condizione privilegiata di possedere disposizioni d’animo, risorse culturali e modi imperniate su una sensibilità levigata, addestrata e ingentilita, può riconoscere ed apprezzare la delicatezza.
In genere, in riferimento agli oggetti, parliamo di delicatezza più per i manufatti umani che non per le manifestazioni della natura, dove facciamo di solito valere altri termini che alla delicatezza si apparentano, come la morbidezza, la sofficità, la levità, la fragilità: ciò perché la delicatezza, concettualmente, inerisce non tanto alla natura quanto alla civilizzazione, in particolare alla disciplina interiorizzata del tatto.
La natura è in linea di massima tutt’altro che delicata: allo sguardo dell’uomo essa appare più spesso ardua, rude, grossolana, dura, aspra, cruda. Forse perché sin dal secondo ‘800 i filosofi hanno smesso per sempre di parlare in astratto di «Natura», la rappresentazione corrente rimane quella romantica. Siamo perciò inclini a rintracciare solo accidentalmente la delicatezza dei fenomeni naturali, spesso grazie alla delibazione minuta di un dettaglio o dove l’ambiente è stato modificato dall’uomo, ad esempio in un giardino, considerato da tutto le culture – anche metaforicamente – come luogo di delizie per eccellenza. La natura «incontaminata» si manifesta ancora all’uomo nella consueta modalità del sublime, come una grandezza maestosa ed eccedente che ci soverchia e colpisce emotivamente, come una potenza che ci fa piccoli, osservatori ammutoliti e colmi di stupore e di fremiti.
La delicatezza, invece, richiede un’educazione, e non solo del senso estetico. In passato ciò ha prodotto non poche reazioni. Alcuni filosofi hanno contrapposto la natura austera, genuina, spontanea e semplice alla civiltà addolcita, inautentica, artefatta e ricercata; la delicatezza degli esseri umani e dei loro prodotti è stata descritta come superflua, corruttrice, falsante e insincera. Nei due Discorsi degli esordi e soprattutto nell’Emilio, Rousseau considera la delicatezza uno dei tanti artifici atti a rimarcare l’innaturale diseguaglianza tra gli uomini. Per mostrargli l’effimera vanità della ricerca di raffinatezze, il precettore sottopone ad Emilio l’esempio dei cibi prelibati: simbolo di diseguaglianza e di status, una volta nelle viscere, subiscono tutti la medesima sorte dei cibi poveri dei contadini.
Forse una visione meno maschile e meno maschia della vita noterebbe nel mondo animale e umano quanto naturale sia il rapporto di cura che unisce con delicatezza una madre ai suoi cuccioli. Analogamente, una visione meno spartana coglierebbe quanto la delicatezza sia necessaria e costitutiva anziché superflua e inessenziale nelle relazioni con gli altri. La voluttà condannata dai romani ci apparirebbe innocente e tale da non creare dipendenza. Essere raffinati, sottili, attenti ad apprezzare dettagli e sfumature, saper gustare in profondità più che in estensione migliorerebbe sul piano estetico la qualità della nostra vita, non svilirebbe affatto la nostra spontaneità e la nostra naturalezza e non porterebbe a eccessi, giacché il godimento delle cose e dei sentimenti delicati si dà solo se è moderato, come ben sanno i golosi di cioccolato: un quadretto del miglior cioccolato di Bruxelles, al massimo due, altrimenti lo stomaco si intoppa e la «festa» è rovinata…
Vi è dell’altro. La delicatezza, più che un approccio ai piaceri, si rivelerebbe una forma di approccio alla vita, alle persone e persino ai problemi che dobbiamo affrontare. È in questa prospettiva che dobbiamo guardare. Da questo punto di vista l’affettazione, la dissimulazione, la stereotipia dei comportamenti appresi e persino la «buona educazione» ridotta a ritualità, a guscio convenzionale, sono estranee alla delicatezza di cui parliamo.
Tra tutte le costellazioni concettuali utili a questo scopo, la più rilevante include la delicatezza nei campi delimitati dalla prudenza, dal riserbo e dalla sensibilità nei riguardi di noi stessi e degli altri. Dovremmo trattare i problemi della nostra esistenza, delle nostre relazioni ma anche gli oggetti delle nostre riflessioni e delle astrazioni concettuali di cui ci serviamo, incluso l’ambito scientifico e teorico, come se dovessimo lavare un golfino a doppio filo di cachemire senza ricorrere alla centrifuga, e possibilmente a mano. Essere delicati significa, insomma, handle with care, maneggiare con cura: fare attenzione, muovendoci in punta di piedi, circospetti, come se dovessimo «camminare sulle uova». La delicatezza come forma di attenzione si associa al pudore, a una peculiare leggerezza, alla pacatezza, alla moderazione, al controllo automatizzato degli impulsi. Nei rapporti con le persone, inclusi gli sconosciuti, dovremmo fare attenzione a non ferire, a non essere inutilmente intrusivi, a non invadere terreni interdetti, a non forzare le cose, ad usare con misura e cautela le parole, senza brandirle come clave (nemmeno le clave che divertono i bambini a carnevale, possibilmente), a intravedere gli effetti dei nostri gesti, insomma a riconoscere o intuire dove gli altri sono più «delicati», più fragili ed esposti, non per metterli in difficoltà più facilmente, ma per rispettare la loro integrità. Il «riguardo» proprio della delicatezza va esercitato anche in assenza, e non solo del singolo altro in questione, ma come se fosse possibile l’assenza di qualsiasi Altro: ciò significa imparare ad astenersi dal pettegolezzo, dallo svilimento gratuito agli occhi di terzi, dalla curiosità morbosa, dalla malevolenza.
Analoga delicatezza andrebbe impiegata nei confronti dell’ambiente, dei suoli, delle risorse, del patrimonio artistico, dei paesaggi, degli animali e degli alberi. La delicatezza diventa qui un modo di essere, e anche di amare, che nella cultura occidentale ha i suoi ascendenti più remoti in Francesco d’Assisi. In questo senso la delicatezza si configura come una virtù, anziché come una semplice disposizione, e come una virtù politica, o almeno come una virtù su cui rifondare un agire dei politici di professione profondamente malata e ormai, anche in sede locale, lontana anni luce dai cittadini.
Quanto all’ambito dell’argomentazione – interiore, privata o pubblica –, il modello più confacente di delicatezza è l’interrogazione socratica, che ci ammonisce a non entrare a cuneo nei problemi, per coglierne invece le contraddittorietà, le ambivalenze, gli intrecci. Data l’indelicatezza e la grossolanità semplificatoria dell’argomentare corrente, e del «pensare» che vi sta dietro, dato il numero smisurato di elefanti che entrano incuranti in qualunque cristalleria, l’urgenza di apprendere a maneggiare le questioni con cura e di mostrare pratiche di pensiero dotate di forza educativa sembra, tra tutte, la più rilevante.
Dovremmo capacitarci che tutto è «cristalleria», e che non siamo elefanti, ma fragili e cagionevoli, delicati appunto, anche quando è in gioco la «salute» del nostro pensare, e non solo le relazioni con gli altri: potrebbe intanto aiutare ad abbassare l’aggressività, oggi diffusa ben oltre i livelli di guardia; e sarebbe un eccellente vaccino contro gli effetti indesiderabili di comportamenti ispirati a ogni forma di titanismo e di spirito prometeico.
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