Nel corso di una messa solenne in San Pietro per il centenario del martirio armeno, preludio degli altri grandi genocidi del ventesimo secolo, Papa Francesco ha elevato il suo grido accorato contro il seguito di persecuzioni che hanno afflitto e soprattutto affliggono i cristiani nel tempo presente. Onde la reazione esagitata del Presidente turco Erdogan e il tono minaccioso fuori dalle righe: “condanno il Papa e desidero avvertirlo: spero che non commetta di nuovo un errore di questo tipo”. Restano i fatti, incontrovertibili.
Nell’Impero ottomano che dal 1878 al 1914 (scoppio della prima guerra mondiale) ha perso i tre quarti del suo territorio e l’85% della sua popolazione, la comunità armena (circa un milione e mezzo gli Armeni residenti in Anatolia) in grande sviluppo e facente capo soprattutto alla Chiesa apostolica, è andata chiedendo riforme o autonomia. La risposta del Sultano Abdulhamid II consiste nell’ordinare stragi tra il 1894 e il 1896. L’azione persecutoria si fa sistematica nel 1908 con il colpo di Stato dei “giovani turchi”, militanti nel Comitato di Unità e Progresso (Ittihad) nel nome di rivendicazioni nazionalistiche affluenti al panturchismo. Esponenti di spicco del partito sono Talat, Enver e Djemal. Azeri, kirghisi, uzbechi dovrebbero appartenere a questa ecumene etnica, non gli Armeni d’Anatolia. Nel 1909 segue lo sterminio di trentamila persone in Cilicia.
Nell’aprile del 1915 si scatena un’epurazione in grande stile, l’élite armena di Istanbul è arrestata e giustiziata, gli ordini di deportazione di massa si fanno perentori. Gli uomini sono eliminati appena fuori dai centri abitati, carovane di donne, anziani, bambini subiscono soprusi e violenze. La volontà precisa della classe dominante è che solo il dieci per cento degli Armeni possa giungere ai centri di raccolta presso l’Eufrate, Aleppo, la Siria. Si impone una conversione forzata all’Islam, mentre gli Imperi Centrali (alleati della Turchia) e l’Intesa assistono indifferenti.
Verso il termine del conflitto Costantinopoli si arrende il 30 ottobre 1918, gli esponenti di Ittihad sono in fuga all’estero, si succedono processi, ma non si verifica alcuno smembramento dello Stato. Se in ottemperanza ai principi di Wilson col Trattato di Sèvres del 1920 è riconosciuta una Repubblica armena con sovranità su gran parte dei territori dell’Armenia storica, con quello di Losanna del 1923 è disconosciuta persino l’esistenza del popolo armeno.
Il compimento del genocidio è opera di Kemal Atakurk, Presidente della Repubblica turca dal 1923. Sul genocidio scende l’oblio: si è trattato di uno sterminio voluto da leader laici con appello strumentale alla maggioranza musulmana e grazie al concorso delle minoranze curde da sempre ostili agli armeni. La supervisione del massacro durante il conflitto è stata esercitata da ufficiali dell’esercito tedesco alleato. A ben poco nel corso degli eventi è valsa la solidarietà russa in funzione di interessi puramente egoistici di potenza espansionistica. Nelle marce della morte del 1915 si calcola siano perite un milione e duecentomila persone. A questa cifra si rifà lo storico Arnold J. Toynbee.
Il negazionismo si è rivelato una costante da quel tempo lontano, anche per la contrarietà a riconoscere in Kemal Atakurk (Padre della Patria) il responsabile più in evidenza del crimine. Tuttora gli articoli 301 e 305 del Codice Penale turco comminano fino a due anni di carcere per chi osi qualificare la repressione in termine di genocidio. Erdogan, al potere ormai da tredici anni, rifiuta questa definizione, anche se resa necessaria per l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea. Il 17 novembre 2000 si è espresso in tal senso anche il Parlamento italiano. Il Parlamento europeo a larga maggioranza l’ha riconosciuto come genocidio (non si è trattato solo di una strage nel contesto bellico) e ha proposto l’istituzione di una giornata del ricordo, individuata nella ricorrenza del 24 aprile.
Tanto è lo strascico lasciato da una vicenda dettata da efferato odio etnico-religioso, con cui tornano ad affacciarsi sempre nuovi spettri sulla scena del mondo. Un magnifico e affascinante affresco storico di questa tragica diaspora si può rinvenire nell’opera di Antonia Arslan “La masseria delle allodole”, Premio Stresa e Campiello, recentemente riedita da Rizzoli.
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