La sera del 14 maggio 1993 stavo cenando all’aperto, ospite di amici in un elegante attico ai Parioli. Improvvisamente il caos: un boato, fumo, vetri rotti in lontananza, decine di allarmi che scattarono all’unisono. A duecento metri dal nostro terrazzo si consumava l’attentato ai danni di Maurizio Costanzo e della sua compagna Maria De Filippi. L’esplosione di una autobomba imbottita con cento chilogrammi di esplosivo ad alto potenziale in via Fauro non provocò vittime, ma sette feriti fra cui l’autista e una delle guardie del corpo private che accompagnavano il giornalista. I danni materiali furono ingenti tanto da decidere per l’evacuazione del palazzo all’altezza del civico 62 e provvedere alle riparazioni delle facciate di altri quattro palazzi anche nella vicina via Boccioni. Le riprese con una videocamera che il padrone ebbe la prontezza di realizzare, sia pur da lontano, dell’auto in fiamme, fecero letteralmente il giro del mondo: CNN compresa.
Come è noto gli autori dell’attentato furono identificati, tra di loro anche Gaspare Spatuzza che in seguito ritrattò. La pista era quella della ritorsione mafiosa. Come ricordò anni dopo lo stesso Costanzo in una intervista a Sandro Ruotolo: “Durante gli anni in cui mi occupavo del problema, chiesi ad Andreotti e a Martelli che la si finisse con la vergogna dei mafiosi che lasciavano le infermerie del carcere per starsene tranquilli in ospedale. L’aver ottenuto questo credo mi abbia nuociuto”.
La lunga premessa per spiegare il perché nelle settimane successive al fatto e per via di quelle preziose immagini che il padrone di casa mi aveva fornito, stazionai stabilmente ai Parioli per seguire gli sviluppi della inchiesta. Salendo e scendendo le stradine, raggiungendo piazze protette da tetti di pini, osservando le case non belle ma comode, con piccoli terrazzi pieni di vasi di gerani, pregando nella Basilica del Sacro Cuore Immacolato di Maria a piazza Euclide, finii con l’affezionarmi a questo quartiere a torto indicato come un simbolo della borghesia romana.
Una efficace descrizione dei Parioli la offre un testimone che i lettori di RMFonline già conoscono, quel commissario Ponzetti di Giovanni Ricciardi che ambienta ogni sua inchiesta in un diverso posto di Roma: “Sembra una zattera ancorata al centro con una corda lenta, flessuosa che gli lascia un po’ di gioco e la fa ondeggiare sull’acqua tranquilla di un molo silenzioso. La corda ogni tanto lascia che la zattera si allunghi verso una campagna sciatta, annunciata da stradoni incerti se seguire l’orizzonte della valle del Tevere o il raccordo dell’Olimpica… I negozi si fanno rari, le vetrine sono piccole e ordinate mentre i portoni lasciano il posto a cancelli di ferro. In fondo a via Paisiello attraversi i binari del tram e sei già sul ponte che ti traghetta a bordo della zattera. Pochi metri e sei sopra. Perché ai Parioli non sei mai dentro, sei sempre sopra”.
Il nome in effetti deriva dalla denominazione di Monti Parioli, data a un gruppo di colline di tufo che si innalzano rapide a ridosso del Tevere. L’urbanizzazione dell’area, avvenne agli inizi del Novecento. Per decenni vi si è incontrato un certo tipo romano ben rappresentato da Gianfranco Funari nel film “Simpatici e antipatici”: palazzinaro e arrogante o all’uscita dei bar quei giovani che animano le “Vacanze di Natale” dei Vanzina…
Ora è soprattutto un quartiere vecchio e poco abitato. I prezzi delle case sono alle stelle e ormai, forse, le badanti filippine o dei paesi dell’Est eguagliano il numero dei romani residenti. Non è nemmeno più vero che sia un serbatoio della destra. Da molti anni è la roccaforte di un certo PD romano radical-chic. I voti la Meloni se li trova in periferia.
Insomma tanti luoghi comuni da sfatare per un quartiere a cui i giornalisti applicano sempre gli stessi stanchi cliché. Tranne che quando ci sia da parlare del “Madoff dei Parioli”. Ma questo è un altro discorso
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