Nella cover italiana che l’Equipe 84, sopra tutti, ma anche i Corvi e altri gruppi fecero della canzone Bang Bang (1967) scritta da Sonny Bono per la moglie Cher ci sono due versi memorabili all’inizio della seconda strofa: “No, non si può fermare il tempo /, non si può mutare il vento…”.
Nella caserma di artiglieri da montagna, a Vipiteno-Sterzing, più di quarant’anni fa, sulla parete del muro di cinta della legnaia e del deposito carburanti campeggiava a caratteri cubitali la scritta “Non si può fermare il tempo”, probabilmente ripresa da un soldato amante del beat, e lasciata a memoria futura di ognuno che ne varcasse la soglia. Aveva dunque, quella scritta, un significato preciso che si proiettava oltre una naja obbligata e non sempre bene accetta. Prima o poi si sarebbe tornati a casa…
Eppure, anche a casa, il tempo avrebbe continuato a scorrere in modo inesorabile. A questa verità si pensava, alcune settimane addietro, nel vedere ancora sui teleschermi, e nel riascoltarne i brani, i volti di cantanti che una volta – negli anni Sessanta – contrassegnavano per molti note di gioiosa speranza. E la riflessione prendeva sostanza sia si trattasse di ritrovare immagini d’epoca, sia di assistere a intrattenimenti con la presenza dei cantanti stessi, i quali – quasi tutti – alla fine intonavano i loro motivi di successo: Gigliola Cinquetti, Adriano Celentano, Ornella Vanoni, Caterina Caselli, Gianni Morandi, Rita Pavone, Iva Zanicchi, Bobby Solo…
Per loro, dunque, il tempo nonostante tutta la buona volontà degli interessati (e forse degli astanti) sembra non essersi mai fermato, a dispetto di… Bang Bang. E alcuni dei cantanti citati, grandi protagonisti di un’epoca, hanno già ampiamente superato i settanta (Mina, Ornella e Adriano per esempio) e veleggiano ormai verso un’ancora più matura senescenza. Altri o sono lì lì o vi si stanno avviando di buon passo.
Appare subito chiaro, per quanto ci si voglia crogiolare nel passato, che né i volti, né i corpi, né le voci – e per certi nemmeno il mestiere – sono più gli stessi. Occhi malinconici, guance cadenti, capelli più radi o tinti (quando ci sono). L’amore incondizionato per la musica, certo, è rimasto, il tentativo di riproporre gli antichi fulgori pure. Ma vi sono stati vistosi riciclaggi, anche di ritmo e di contenuto: uno pesudofilosofo (Celentano), un presentatore-intrattenitore (Morandi), un’agente discografica scopritrice di nuovi talenti (Caterina Caselli), anche un’europarlamentare fino a recente inesorabile trombatura (Iva Zanicchi)…
La lezione che se ne trae non è delle più esaltanti. Quasi sempre, infatti, il pubblico che applaude e che si bea dei loro idoli è composto da ex-giovani. E quando invece si tratta di veri giovani si ha il sospetto di generazioni condizionate, anzi assoggettate dalle precedenti (genitori o attempati zii). Le performance, per quanto ci si sforzi di renderle il più possibile gioiose, sono pervase da quell’aura malinconica che pervade il famosissimo film “Viale del tramonto”, di Billy Wilder. Dove il “giovane” e un po’ squattrinato sceneggiatore Joe Gillis (William Holden) si lascia irretire dall’(ex) grande attrice Norma Desmond (Gloria Swanson), desiderosa di tornare sulla scena, ma ormai prigioniera del suo personaggio, fino alla tragedia.
Perché, purtroppo, il traguardo, inutile nascondercelo, non può essere lì a portata di mano né ruggisce un presente di sogni e di speranze: la Fiat Seicento, la tv in bianco e nero, il juke-box del bar sottocasa e una ragazzina che ci aspetta o che viene mandata dalla mamma a prendere il latte.
Ricordare e rivedere e riascoltare molto spesso fa bene e irrora il cuore. Ma altre volte colpisce duro. Perché basta un leggero battimani, quasi un fruscio, e il sipario è già calato.
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