In attesa di ‘fare l’esperienza’ di EXPO, magari in compagnia di Onirio e di Sebastiano, ho iniziato a frequentare gli eventi scientifici e culturali che si sono affollati a Milano in queste due prime settimane dell’evento. Ne voglio dare una relazione sintetica, cercando di afferrare i punti che più mi hanno colpito, senza la pretesa di essere esauriente. Le cronache dei giornali specializzati e gli atti pubblicati dai promotori lo saranno di più. Anche se non mi sento di caricare il discorso nello stile consueto delle apologie paradossali, il lettore si accorgerà da sé che la natura stessa dell’argomento non consente di prospettare facili soluzioni che eliminino le vistose sembianze di contraddizione, nemmeno ricorrendo all’artificio retorico del paradosso
La seconda settimana dell’EXPO inizia a dare la misura dell’importanza del tema che costituisce la ragione vera dell’avvenimento, la sua natura globale, la traccia incancellabile che rende ragione degli aspetti più turistici, spettacolari e culturali che certamente attraggono maggiormente il pubblico. Mi riferisco in particolare ad alcuni convegni che, per quanto frequentati esclusivamente da ‘addetti ai lavori’, hanno dato indicazioni rimarchevoli.
Particolare rilievo ha avuto l’intervento del premio Nobel Amartya Sen alla conferenza promossa dal Ministero degli esteri: egli ha ricordato ancora una volta che l’indubbio legame tra disponibilità di produzione agricola, quindi di cibo, ed effettiva possibilità di acquisto da parte della popolazione più povera è fortemente condizionato più da fattori politici, culturali, climatici e macroeconomici che dalla esistenza effettiva nel mercato mondiale di prodotti alimentari. Portando tra gli altri l’esempio dell’India, l’illustre economista ha sostenuto che con la fine del dominio britannico è scomparsa la carestia, ma non la possibilità della denutrizione delle donne e dei bambini negli strati più bassi della popolazione, per ragioni di tipo sociologico-culturale, così radicate che non costituiscono un elemento di discussione nemmeno durante i confronti elettorali.
Jomo Sundaram, assistente direttore generale della FAO, ha ulteriormente esemplificato l’incidenza di taluni fattori esterni alla produzione agricola, quali la destinazione di terra fertile alle produzioni energetiche, con riflessi immediati sulla volatilità dei prezzi, con effetti poco rilevanti per le popolazioni degli stati con reddito elevato, ma catastrofici, per quelle famiglie che sono costrette a spendere per il cibo una percentuale molto più alta del proprio reddito.
Rispondendo ai numerosi altri interventi, Sen ha ribadito che la maggior parte delle recenti carestia ha avuto origine da fattori politici e poteva essere prevenuta dall’azione dei singoli governi e, nei casi di grave conflitto, da una più concorde azione della comunità internazionale.
Nel pomeriggio dello stesso giorno, all’ISPI si è discusso il tema “Nutrire il pianeta: una questione globale”, con introduzione del ex ministro dell’agricoltura Paolo De Castro, ora relatore permanente del Parlamento Europeo per l’EXPO. Egli ha proposto come assunto basilare che il fattore attualmente determinante non è l’aumento demografico, ma l’accresciuto reddito pro-capite della popolazione asiatica, in particolare cinese, che ha creato un forte aumento della domanda di cibi proteici con conseguente squilibrio dei prezzi, dopo alcuni decenni durante i quali erano calati, nonostante l’aumento della popolazione, grazie alla cosiddetta rivoluzione verde. Ora purtroppo la produttività in agricoltura cresce solo dell’1% all’anno, contro il 4% degli ultimi decenni del secolo scorso. Questa prospettiva ha spinto la Cina non solo ad acquistare fino a 200 milioni di ettari di terra coltivabile, specialmente in Africa e in Sud America, ma ad acquistare il controllo del primo produttore di carne degli Usa e del primo produttore di soia del Brasile. Per ragioni simili, l’Arabia Saudita ha portato le proprie scorte alimentari al livello del fabbisogno di due interi anni.
Da queste pur sommarie informazioni possiamo arrivare ad una prima, inquietante conclusione: la fine della grande contrapposizione politico-ideologica che ha fatto denominare ‘guerra fredda’ il mezzo secolo successivo al conflitto mondiale, non ci mette affatto al sicuro dal pericolo di nuovi conflitti, non meno tragici anche se apparentemente meno violenti. Parafrasando Von Clausewitz si può dire che l’economia è la prosecuzione della guerra, con altri mezzi.
Grandi timori e nessuna speranza, dunque?
Prima di tornare a discuterne con Onirio e Sebastiano che, credetemi, mi hanno già sommerso di domande, critiche e obiezioni, ovviamente ancor più in contrasto tra di loro che con me, permettetemi di rifarmi al messaggio lanciato dalla meditazione-spettacolo voluta dal cardinale Scola lunedì scorso in piazza Duomo: quel ‘non di solo pane vive l’uomo’ non è lo strascico di un pietoso moralismo, ma è un affermazione ontologica. (Scusate il tecnicismo filosofico: voglio solo dire che la natura dell’uomo non è ciò che mangia, ma è un destino di relazione con l’Essere che supera ogni materialità).
Da questo punto di partenza si può iniziare a giudicare tutto quanto, l’uso della terra come delle risorse scientifiche e tecnologiche, l’accaparramento della terra come le politiche sanitarie o quelle di contenimento dell’aumento della popolazione, la disoccupazione dei giovani europei e l’emigrazione disperata dalle zone di guerra, di fame e di offesa alla dignità umana.
EXPO può far discutere anche di questo, non solo se l’allungamento dell’orario notturno giovi o danneggi la movida milanese.
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