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Attualità

QUALE RIFORMA PER LA SCUOLA?

LIVIO GHIRINGHELLI - 15/05/2015

scuolaNon è certo buona una scuola che non attende tanto alla crescita integrale delle persone, quanto al semplice addestramento di abilità che si possono spendere immediatamente sul mercato del lavoro. Verrebbero così depotenziate la creatività, la capacità di argomentazione, la visione critica dei problemi, che sono oltretutto alla base di una formazione orientata alla democrazia. Ci si concentrerebbe in misura prevalente e progressiva sulle competenze, ovverossia su conoscenze che si possano applicare efficacemente in certi contesti operativi e facilmente quantificabili. Si privilegerebbero percorsi uniformi già predisposti e largamente fondati su pratiche di memorizzazione. Gli insegnanti non sarebbero più intellettuali al servizio del bene comune, quanto burocrati concentrati su routine educative verificate da tutto un sistema di test.

Questo in tempi in cui l’impresa postfordista e globalizzata richiede ben altri approcci anche in termini caratteriali (il lavoratore, l’addetto deve diventare in certo modo imprenditore di se stesso, flessibile, disposto al cambiamento, dotato di un alto spirito di iniziativa, autonomia, elasticità, cui si richiedono livelli sempre più alti di performance. Anche nel campo dell’istruzione professionale è d’obbligo l’adeguamento alle profonde trasformazioni strutturali dell’economia e del lavoro: non si devono rispecchiare professioni e processi di produzione ormai obsoleti.

È necessaria invece una giusta sinergia tra aspetti tecnici e aspetti valoriali. Si tratta di promuovere l’evoluzione personale degli allievi, il cambiamento positivo, la mobilità sociale, l’apertura al dialogo e al confronto, oltre ogni tentazione conformistica di massa. La valutazione non deve riguardare il solo profitto, ma anche attitudini e capacità. Né va escluso uno spirito ben inteso di collaborazione ad evitare concorrenza e antagonismo, se intesi a minare le basi della dimensione relazionale. A tutto questo dovrebbe essere funzionale il Piano dell’offerta formativa (POF), che dal 2000 qualifica l’autonomia scolastica e il funzionamento di ogni istituto in ordine agli aspetti amministrativi, didattici ed organizzativi. A partire da quest’anno scolastico 2014-2015 è entrato al proposito in vigore l’obbligo di valutazione della formazione scolastica. Che deve riferirsi al contempo al piano dell’offerta formativa elaborato autonomamente dall’istituto e agli obiettivi e traguardi fatti espliciti a livello ministeriale, pena l’anarchia. Conoscenze, abilità, competenze si devono conciliare con gli obiettivi educativi. Così ogni scuola garantisce anche la propria responsabilità verso la collettività grazie alla trasparenza e alla piena disponibilità dei dati.

Il rischio di una comoda autoreferenzialità deve essere ridotto al minimo e vanno ben identificati i trend di miglioramento ( grazie a pratiche progettuali e operative opportune) e peggioramento. Se ci si sbilancia sulla pura funzione decisionale della valutazione c’è il rischio di deresponsabilizzare i protagonisti dei vari processi configurandola in un’azione calata dall’alto. Comunque il piano pedagogico deve prevalere su quello econometrico. Per una giusta economia degli sforzi ci si deve inoltre focalizzare su un numero limitato, ma significativo, di elementi prioritari.

Ognuno deve dimostrare disponibilità a mettere in discussione il proprio lavoro, anche i dirigenti, liberati da modelli manageriali non pertinenti, chiamati ad operare in un contesto pienamente collegiale sul fondamento di una capacità di guida in team. Il feedback fornito dagli esperti esterni deve puntare sul coinvolgimento in un clima di reciprocità e di fiducia sulla base di un insieme di criteri espliciti, tenendo anche conto delle caratteristiche socioeconomiche dell’ambiente, di tutti i fattori di contesto che non sono controllati dalla scuola. Scopo massimo è l’evitare fenomeni di dispersione e d’abbandono ancora frequenti, specie in certe aree geografiche o di relativa emarginazione sociale.

Il pericolo è che in certe situazioni si bari nel compilare le prove standardizzate. Si tratterebbe di una sterile, quanto dannosa e odiosa battaglia di retroguardia, mentre attraverso tutto un sistema di comparazione sincronica e diacronica è tutta la scuola che si propone da protagonista all’attenzione del processo di ripresa nazionale. Qui si giocano l’efficienza e l’efficacia del sistema di controllo, non concepito in modo occhiuto al solo fine di dare incentivi e sanzioni e formulare classifiche di istituti, bensì intento a fornire soprattutto informazioni e supporto, strumenti adeguati di analisi, stimoli alla consapevolezza. Non basta fotografare l’esistente, inducendo a comportamenti difensivi. I nuclei di valutazione prevedono nella loro composizione un dirigente tecnico offerto dal Ministero e due esperti selezionati dall’INVALSI, che ha il ruolo di coordinamento. Ormai bisogna andare al di là della pura sperimentazione, valorizzando anche gli esiti a distanza nella prospettiva dell’università e del lavoro.

Certo va superato il macchinoso e alienante sistema di reclutamento e avanzamento di carriera vigente nella scuola, di cui sono anche largamente responsabili i sindacalismi vecchia maniera. La scuola non merita di continuare ad essere un indiscriminato mercato del lavoro per disoccupati intellettuali con inadeguata qualificazione. Né si può insistere su modelli di insegnamento cattedratico, con studio individuale pedissequo e tutta una serie di verifiche di miope valore fiscale. Assenteismo, disaffezione, scarso rendimento preludono soltanto alla vecchia arte di arrangiarsi. Solo una buona e solida base formativa può essere predittiva di un successo futuro.

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