Nei racconti delle apparizioni del Risorto c’è l’incontro di Gesù con i discepoli ancora chiusi nel cenacolo “per paura dei Giudei”. Hanno acuta coscienza dei loro gravi errori: hanno tradito, sono scappati, non hanno retto alla morte del Maestro, e sono immobilizzati dalla paura…
Papa Francesco, osservando lo stile attuale degli operatori pastorali, li mette in guardia: “Delusi dalla realtà – dalla Chiesa o da se stessi – si attaccano a una tristezza dolciastra, senza speranza, che si impadronisce del cuore come il più ricco degli elisir del demonio. È il peccato contro lo Spirito Santo che ci fa tristi” (Evangelii Gaudium, 83).
E poco più avanti ribadisce: “Il senso di sconfitta ci trasforma in pessimisti scontenti e disincantati dalla faccia scura. Bisogna andare avanti, senza darsi per vinti” (Evangelii Gaudium, 85).
Gli undici danno l’impressione di essere un gruppo allo sbando; sono persone isolate, spente, spaesate; le porte e le finestre sbarrate rivelano la chiusura dei loro cuori. Gesù viene per loro e tornerà otto giorni dopo per Tommaso, assente la prima volta.
La prima parola, il primo dono, frutto della sua passione-morte-risurrezione è “pace”: non si tratta di un augurio o di una promessa, ma di un regalo; è l’offerta della nuova ed eterna alleanza tra Dio e l’umanità.
Gesù viene a mettere pace in quei cuori afflitti, pace sulle paure che fanno fatica a svanire, pace sui sensi di colpa che pesano sulla coscienza, pace sui sogni non raggiunti, rimessi nel cassetto, pace sulle insoddisfazioni che minano la speranza.
Gesù viene col vento sottile dello Spirito, in assoluta libertà. Rispetta la condizione di debolezza dei suoi amici, che visita per assisterli nella prova e aiutarli nelle difficoltà che devono affrontare; non si impone, ma si propone; addirittura si espone alle mani di Tommaso.
L’immagine che tutti sono invitati a guardare da vicino non ha richiuso i fori dei chiodi, non ha rimarginato le labbra delle ferite. Perché la morte di croce non è un semplice incidente di cui rimuovere in fretta ogni traccia; proprio quelle ferite sono “la gloria di Dio”, il punto più alto dell’amore. Per questo sono destinate a rimanere aperte per sempre.
Tommaso non si sa se abbia davvero toccato il Signore. A lui basta il fatto che Gesù sia tornato una seconda volta, forse proprio per lui, dimostrando di essere davvero il Dio-con-noi, che continua a venire con grande umiltà, per dare fiducia, mostrando assoluta libertà: sono le qualità che corrispondono al suo stile, ben conosciute ed apprezzate da tanti, e tipiche di chi ama.
Alla professione di fede del discepolo, che lo chiama “Signore e Dio” il grande educatore Gesù fa seguire l’esortazione (valida per tutti) ad essere liberi dai segni esteriori e seri e coerenti nelle scelte: “Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto”.
È il metodo che deve imparare e fare proprio anche la Chiesa di oggi nella sua opera di evangelizzazione: educare più alla consapevolezza che all’obbedienza, più all’approfondimento che alla docilità.
Credere è l’opportunità per essere più vivi e più felici. Chi crede la remissione dei peccati riceve in dono la pace!
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