Nessun dialogo oggi, con i simpatici Onirio Desti e Bastiano Conformi.
Voglio attenermi strettamente all’idea iniziale della rubrica: Apologie paradossali. Non mi priverò, tuttavia, di uno spunto tematico, pure piuttosto scontato: l’EXPO.
Sono convinto che sarà insieme un successo e un fallimento, ma non da differenti punti di vista, sarebbe cosa normale, c’è la multinazionale e il black bloc, le 55459 ricette e la minestra delle suore di via Bernardino Luini. Dico proprio dal mio punto di vista (sebbene dal vivo non l’abbia vista ancora) che sarà un fallimento, rispetto alle attese iniziali, quelle che parlavano di 29 milioni di visitatori, saggiamente ridimensionati a 20 milioni, ma che potrebbero dimezzarsi ancora, se si mantiene la media delle settimane iniziali. Ma potremmo pure pensare che sarà comunque un successo di pubblico e di afflusso turistico, se pensiamo alla scarsezza di eventi ‘internazionali’ ordinari (escluso il Salone del Mobile), che ha retrocesso Milano a capoluogo di provincia periferica dell’Europa. Forse è già stata un successo, avendo attirato da tempo, prima dell’assegnazione e prima dell’esplodere della crisi, i capitali di investitori immobiliari stranieri, specialmente arabi, tanto che finalmente lo skyline della città si è modificato, inserendo elementi architettonici di pregio in un tessuto urbanistico precedente, caratterizzato da casualità, dalla distruzione o dall’occultazione delle eredità della storia (mura spagnole, navigli), quindi da una morfologia che non è esagerato dire di crescita canceriforme.
Ma stiamo ancora parlando degli effetti desiderabili o meno, ma indiretti. Lasciamo alle spalle ogni polemica sugli aspetti organizzativi e giudiziari e affrontiamo il vero interrogativo: EXPO è davvero in grado di svolgere il suo compito: declinare in un dialogo, senza confini di nazioni, di soggetti e di competenze scientifiche ed economiche, il suo tema: “Nutrire il pianeta, energia per lo sviluppo”?
Lo strumento principale per questo scopo è la “Carta di Milano”, che si presenta come il lascito immateriale più importante dell’evento. Il filosofo Salvatore Veca, che ne ha coordinato la stesura, la presenta così:
“Esiste una convinzione di fondo: il diritto al cibo sicuro e sano è un diritto umano fondamentale. Da un’idea così semplice eppure così difficile diamo uno sguardo alla realtà, a quanto siamo distanti da questo obiettivo. Abbiamo un catalogo dei paradossi, delle cose che non vanno, dei guai e delle catastrofi: 800 milioni di persone che soffrono di fame cronica, 1,6 miliardi di obesi, il 30 per cento del cibo mondiale sprecato, l’acqua che tende all’esaurimento e al sequestro, la difficoltà di accesso all’energia”.
La carta può essere sottoscritta da chicchessia, persona, ente, associazione, impresa, governo, come chiarisce Veca: “Ha il carattere di una dichiarazione. Chi la sottoscrive si assume un impegno, anche se sappiamo benissimo che – per avere uno sguardo disincantato, diciamo – le distanze tra cosa si dice e cosa si fa sono variabili. Però chi aderirà avrà un problema di coerenza di cui tener di conto in futuro”.
Ovviamente non sono mancate le voci critiche di questo ‘basso profilo’ delle ambizioni della Carta. Tra gli altri, il professor Marco Ponti del Politecnico, persona abituata a dire quel che pensa, spesso in modo paradossale (quindi a me molto simpatico) che sostiene “quel che c’è nella Carta non interessa, quel che interessa non c’è”, evidenziando che le affermazioni di principio non sono sostenute da scelte impegnative ma praticabili ed obbliganti per gli attori pubblici e privati.
Così risponde Veca:
“È una proposta rivolta ai cittadini e alle cittadine del mondo che possono sottoscriverla esercitando la voice, per dirla con Albert Hirschman. Non è un protocollo intergovernativo, né un’agenda di policies. Questo rende conto del fatto elementare che mancano nella Carta “quantificazioni” o “priorità”, come osserva Ponti. E rende anche conto del fatto che espressioni come “difesa del suolo”, ” difesa del reddito degli agricoltori” e “uso di fonti energetiche pulite” siano inevitabilmente vaghe ed esposte a interpretazioni controverse, come sottolinea Ponti… L’idea base della Carta si può formulare allora così: muoviamo da assunzioni deboli e condivise per includere e non escludere ex ante, e per aprire lo spazio alla critica, all’innovazione, alle visioni e alle pratiche alternative. Con una precisazione: nella sua versione attuale la Carta è corredata da una vasta gamma di allegati. Si tratta dei rapporti, degli esiti di ricerca e dei contributi che ne hanno accompagnato il percorso sino alla sua presentazione pubblica il 28 aprile scorso all’Università degli Studi di Milano. Ora, durante tutto il semestre di Expo, la Carta è aperta a nuovi contributi, a nuove proposte, a ulteriori approfondimenti. Ed è in questa nuova veste che la Carta di Milano sarà consegnata in ottobre al segretario generale delle Nazioni Unite. Come dire: ce n’est qu’un début.”
Non so decidere chi abbia ragione tra i due (le lunghe citazioni di Veca hanno scopo informativo) ed è proprio questo il bello di questa Apologia: non si deve giudicare a priori, occorre vedere per credere, partecipare per rendersi attivamente consapevoli, raccontare per informare e coinvolgere altri. Andiamoci di persona all’EXPO, anche se ci sembrerà un evento turistico-consumistico, come da debordante presenza di chef, star della TV e dello sport tra gli ‘ambasciatori’ dell’evento. Andiamoci anche si ci sembrerà una baracconata, dominata dall’effimero e dallo smercio di paccottiglie, come da mie precedenti esperienze in manifestazioni simili.
È proprio l’importanza del tema a rendere controvertibili tutte le interpretazioni e perciò suggestiva l’esperienza diretta; oltre che munirsi di una buona guida e scegliere prima il proprio obiettivo di visita, consentitemi un suggerimento: leggetevi “LUOGHI DELL’INFINITO”, l’inserto mensile di Avvenire, dedicato all’EXPO e titolato “Mondi svelati”, di cui potrete apprezzare le notizie, gli approfondimenti e soprattutto l’evidenza dei contrasti e dei paradossi. Spero vi rimanga negli occhi la foto di madre e figlia davanti ad un focherello nella propria casa nello slum di Dacca, la capitale del Bangladesh: non ho mai visto meglio rappresentate gioia e speranza, l’auspicata eredità di EXPO.
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