Quella tra l’agro-industria e l’agricoltura biologica non è una battaglia tra il bene e il male. È un confronto tra odierne risposte a un problema ricorrente nella storia: la questione dell’equilibrio, sin qui infine sempre mantenuto, tra popolazione umana e risorse nel rispetto dell’ambiente. Perciò, insieme a osservazioni sulla «Carta di Milano» che condivido pienamente, mi è dispiaciuto di trovare in “Expo, uno spettacolo senza contenuti” – il commento di Luigi Mariani che la Nuova Bussola Quotidiana ha pubblicato lo scorso 1° maggio — gli echi di una campagna di retroguardia contro l’agricoltura biologica che davvero sarebbe ora di archiviare. Seppur per inciso Mariani bolla sbrigativamente come “incalliti tradizionalisti” Ermanno Olmi e Carlo Petrini facendo tra l’altro un sol fascio di personalità professionalmente assai diverse. Non esita poi a definire “magica” l’agricoltura biologica, il che non è nemmeno una forzatura polemica bensì semplicemente una diffamazione.
Non è giusto né opportuno, tanto più in un ambiente come il nostro, mettere l’una contro l’altra l’agro-industria e l’agricoltura biologica come se fossero due realtà alternative, quando invece sono evidentemente complementari. Sottolineo l’inopportunità in un ambiente come il nostro dove presenze importanti e significative si registrano sia in un’area che nell’altra, e dove la concordia riposa su alcune poche cose importanti; quindi più che mai non ha bisogno di fondarsi su forme di pensiero unico nei campi dell’opinabile.
In Italia, ma non solo, l’agricoltura biologica non è una fantasia: è una realtà consolidata che risponde alla domanda di un crescente mercato (oggi pari nel nostro Paese a circa il 10 per cento). Da un punto di vista prettamente economico non sta agli esperti di decidere per i prodotti di origine agro-industriale o per i prodotti dell’agricoltura biologica. In un’economia di mercato, ossia in un’economia libera, questo lo decidono i consumatori. In tale prospettiva anche quella degli Ogm è una questione che non si può più pretendere di risolvere ex lege. Gli Ogm ormai circolano ovunque: anche nell’Unione Europea, dove se ne vieta la coltivazione, trovano tuttavia largo impiego. Siano perciò i consumatori, opportunamente informati, a decidere se farli giungere o meno sulla loro tavola.
Ormai superata l’epoca delle produzioni massicce di prodotti indifferenziati, non soltanto nel settore industriale ma anche in quello agroalimentare la domanda massiccia e uniforme, largamente indotta dall’offerta, tende a trovare sempre meno spazio. Cresce invece il numero dei consumatori disposti a sacrificare altri consumi alla spesa per alimenti di qualità specifiche, anche se questi costano di più dei prodotti agro-industriali. Ciò apre nuove prospettive a prodotti molto caratterizzati, e quindi a un artigianato agro-alimentare per lo più biologico. Pur se anche in questo settore non mancano affatto grandi aziende. Si pensi ad esempio alla Cooperativa Girolomoni, di Isola del Piano (Pesaro-Urbino), con i suoi 8,5 milioni di euro di fatturato nel 2013.
Frattanto la politica deve semplicemente garantire le condizioni perché la concorrenza fra i due settori non diventi sleale. Abbia luogo cioè sul piano del confronto tra qualità e prezzi, e non su quello di vantaggi o svantaggi creati artificialmente con strumenti giuridici e/o amministrativi.
Resta a questo punto da considerare la questione dal fondamentale punto di vista dell’economia politica, che in questo caso si configura nella drammatica domanda: “Grazie a chi e a che cosa potremo sconfiggere la fame nel mondo?”. Espressa in questi termini, che sottendono una preoccupazione puramente quantitativa, la questione è già perciò stesso mal posta. Oggi il problema dell’alimentazione non è di ordine produttivo bensì in primo luogo di ordine distributivo, culturale e di riequilibrio del potere di acquisto. Solo in un settore di ammodernamento tutto sommato recente come quello agricolo prevale ancora negli esperti la convinzione che appunto i problemi economici siano soltanto tecnici o quasi. In realtà le dinamiche sociali, i modelli culturali, la trasmissione dei saperi, i flussi delle innovazioni e il loro controllo oggi contano non meno dei processi produttivi. Tutto questo, che ad esempio è chiarissimo per chi oggi produce automobili, troppo spesso sfugge del tutto a chi si occupa di agricoltura, e specialmente di agro-industria. A parità di valore nutritivo una cosa è consumare un cibo cui si accompagna la perdita della propria capacità economica e della propria autonomia socioculturale, e una cosa è nutrirsi di qualcosa che sazia non solo la fame ma anche la dignità umana da ogni punto di vista; e che consente di stare al mondo non soltanto nel mesto ruolo o di affamato o di consumatore assistito. Beninteso, non pretendo affatto che la produzione agro-industriale sia ipso facto cosa non buona e quella biologica invece sia ipso facto cosa buona. Voglio dire che il confronto tra i due settori non si può fare soltanto in termini di capacità di produzione massiva di materie prime agricole.
Viceversa dal reciproco rispetto possono venire vantaggi per tutti. L’esempio recente della “pace del Bitto” — siglata in Valtellina fra i produttori del formaggio Bitto storico, fatto cioè in modo tradizionale, e le aziende che lo producono in modo industriale — dimostra anzi che grazie al suo valore anche simbolico il prodotto biologico di specifica qualità, e quindi di maggior prezzo, può indirettamente fare da traino pure al prodotto agro-industriale di largo consumo.
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