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Stili di Vita

GUERRIERI DEL WEB

VALERIO CRUGNOLA - 08/05/2015

social.mediaIn un saggio da poco in libreria, Nello sciame. Visioni del digitale, edizioni Nottetempo, il filosofo Byung-Chul Han (padre coreano, madre e passaporto tedeschi) smonta alla radice l’effimera utopia dei tardi anni ’90, che vide nel web la sede di un’inedita democrazia cognitiva, una nuova agorà fondata sull’illimitata disponibilità di informazioni. Quell’utopia dava per scontato il persistere e l’espandersi nel mondo reale di una sfera pubblica interessata a discutere, comunicare, scambiare opinioni e conoscenze. Il web, si pensava, avrebbe potenziato la sfera pubblica. Invece la sta facendo lentamente sparire. La distruzione, già in atto nel mondo reale, dell’opinione pubblica informata e vigile, capace di orientarsi, vagliare e scegliere, è stata accelerata dalla brevità e dal rapido deperimento dei messaggi in circolazione nel web.

Il crollo di uno dei pilastri della civiltà liberale si associa alla fine di uno dei suoi massimi incubi, «l’età delle folle» descritta da Le Bon. Anziché restituire un ruolo alle élites, ormai implose, il declino delle folle ha visto l’avvento dello «sciame digitale»: un’accozzaglia di volti o fakes senza stecche del busto che la sorreggano, collanti che la tengano insieme e guide che ne orientino il cammino. Formando una massa critica che si muoveva in una direzione, le folle potevano esercitare qualche potere.

Lo sciame non prende direzioni precise, muta di continuo configurazione, non costruisce spazi collettivi dell’agire, non si struttura mai, e surroga le relazioni di comunità. Entrando e uscendo di continuo da più sciami, l’uomo digitale ha la gratificante illusione di avere una missione, un ruolo e un pubblico. Ma l’immenso teatro del web è vuoto: restituisce solo l’eco delle voci degli attori che recitano simultaneamente «a soggetto».

Nati per collegare, i social networks hanno generato, almeno al momento, una forma peculiare di autismo digitale. La Rete contrappone e divide; e dividendo isola. Secondo l’OMS la solitudine da dipendenza dal web è oggi un fattore patogeno più diffuso dell’obesità da cattiva nutrizione, del tabagismo, dell’alcoolismo e altre tossicodipendenze. La conclusione di Han è drastica ma realistica: «Il mezzo digitale distrugge le basi della comunità e della cittadinanza».

Anche le speranze di emancipazione sono andate deluse. Il web è sempre più strumento di sorveglianza, di controllo e dipendenza, per lo più a fini mercantili e pubblicitari. La cattura di dati sensibili è moltiplicata dal fatto che gli utenti dei social networks li concedono pur di esporsi, di ostentare in un’illusoria sfera pubblica presunte identità, adesioni superficiali, apprezzamenti o avversioni. L’adescamento è astuto: pochi resistono alla tentazione di mettere un Like su pagine, gruppi, libri, film, musicisti, sport e squadre in cui si riconoscono, e in pochi istanti milioni di profili vengono ricostruiti, aggiornati e resi vendibili.

A queste delusioni se ne associa una terza. L’omologazione subordinata a chi è più forte in sede economica e commerciale, ha annullato la sperata parità dei soggetti nella rete. Le fonti reperibili sono sempre le medesime, le più gettonate; ma pochi sembrano preoccuparsene, mentre la massa non cerca affatto la differenza, la pluralità, la variazione e il vaglio delle informazioni. E anche se qualcuno volesse cercarle, dovrebbe sudare sette camicie per trovarle. Di fatto Google e altri motori di ricerca realizzano la perfetta «dittatura della maggioranza» paventata da John S. Mill.

Dall’agire costruttivo mediante relazioni dirette siamo passati a un agire digitale mediante relazioni virtuali, dove prevale una forte componente narcisistica ed esibizionistica. Il vecchio militante per qualche causa è stato sostituito dal digitante. La democrazia è ridotta a cattura del maggior numero possibile di «Mi piace». Da informazioni accertabili siamo passati a notizie inaccertabili, o che non ci si preoccupa di accertare, spesso «bufale». La complessità ha lasciato il passo alla più brutale e rozza semplificazione. In luogo di pratiche di informazione e riflessione domina il blabla, un parlottare banale tessuto di luoghi comuni. L’istantaneità ha tolto spazio alla decantazione delle passioni. L’emotività prevale. Le instabili comunità virtuali che si formano sono per lo più dominate dal risentimento, pro o contro qualcosa o qualcuno.

Circola il virus delle shitstorms, «tempeste di sterco», ondate di indignazione qualunquistica o rigurgiti di ideologie cristallizzate, spinte sino alla denigrazione personale (ne sa qualcosa Laura Boldrini). Professionisti della politica di tipo nuovo – Grillo in Italia, il Partito dei Pirati in Germania… – hanno costruito sulla capitalizzazione dell’emotività e del risentimento le proprie fortune elettorali, subito inghiottite dal gorgo incontrollabile che ha suscitato, perché l’onda emotiva presto sciama altrove senza lasciarsi afferrare e strutturare politicamente. Le più comuni dinamiche psichiche che suscitano questi comportamenti sono l’aggressività, l’ossessività, il risentimento, l’animosità, l’attaccamento identitario e la ricerca di compensazioni surrogatorie.

La manifestazione politica più estrema della digitalizzazione è l’irruzione di «tifoserie» contrapposte alla perenne ricerca dello scontro. Espulsi dal campo di gioco, ai cittadini è consentito di partecipare come spettatori, non però passivi e silenziosi, ma agguerriti e duri: quella dei tifosi da stadio, ma in un’arena ormai virtuale. Già difficile da controllare in uno stadio vero, il tifoso politico virtuale è del tutto fuori controllo. La degenerazione delle polemiche nei social networks ben illustra questa metamorfosi.

«Polemica» deriva da πόλεμος, guerra. Il polemista guerreggia con le armi della parola, affronta in modo bellicoso le divergenze di opinioni, preferisce la contrapposizione frontale e simbolicamente «mortale» al confronto pacato e moderato, l’ostinata ricerca del casus belli alla mediazione o alla convivenza parallela. Più l’investimento emotivo nella polemica è forte, più la causa è sentita come nobile e giusta, e più sono aspre le modalità di conflitto. Come nelle guerre classiche, esse contemplano duelli, incursioni, sabotaggi e depistaggi del nemico verso falsi obiettivi.

Il polemista vive le proprie opinioni come non negoziabili e non componibili, verità di fede che pretendono di essere affermate mediante una sorta di jihad verbale. Nel web la pratica della guerra verbale è ormai epidemica, endemica e pandemica. Ogni arma è lecita. Chiunque si esponga in questi spazi può trovarsi nel ruolo di belligerante e/o di vittima. Se penserà di essere risultato vincitore, avrà in premio una medaglia virtuale: il numero di likes collezionati consente di valutare l’apprezzamento del suo sciame. Se si sentirà vittima, appagherà la sua vocazione al martirio, e riceverà dallo sciame una lapide e l’onore delle armi. Talvolta le guerre si mescolano a vendette private.

I web warriors hanno un nome conforme: trolls, o meglio New Trolls, in omaggio a un gruppo musicale antesignano del ruspante pop nostrano. La condizione di web warrior in servizio permanente effettivo contempla varie tecniche d’ingaggio: le più comuni sono l’irruzione in campo nemico (i commenti, reiterati e sistematici,in contrapposizione ai post di un avversario politico, sportivo, ecc.), e il depistaggio retorico (lo spostamento dell’asse discorsivo verso diversivi non pertinenti ma a forte valenza provocatoria). Come nelle guerre vere, l’insignificanza per il Nemico del proprio nome e la spersonalizzazione del Nemico costituiscono due scudi protettivi che liberano l’aggressività latente come mai si farebbe in un confronto faccia a faccia.

Sul piano psichico la personalità del web warrior vegeta in un mondo dualistico e manicheo; spregia l’obiettivo da colpire; nella denuncia del Male cerca una gratificazione illusoria dove il senso di eroica onnipotenza che si sprigiona nella «lotta» vale da rivalsa per la deprimente impotenza nel mondo reale. Ottengono più visibilità, paradossalmente, quanti tengono in vita artificialmente anacronistiche identità in via di estinzione, o chi manifesta sentimenti primordiali e contrapposti: amore/odio, accettazione/rifiuto, esaltazione cieca/rabbia compulsiva. Per i primi è una ragione di sopravvivenza, per i secondi uno sfogo che facilita chi lo sfrutta a scopo di marketing, per lo più politico. Diversamente dalla guerra, il web warrior sa di non dover pagare dazio per le sue imprese «militari».

Un vaccino antitifoideo non è disponibile. Per sfuggire a queste insidie vi sono solo due modi. Il più estremo è la sottrazione radicale, l’astensione totale dai social networks. Il secondo è un uso cauto, centellinato e in punta di piedi. Si tratta in questo caso di un processo di apprendimento per prove ed errori (chi è senza peccato scagli la prima pietra…), che esige elevati strumenti di autoconsapevolezza, di misura e di vigile moderazione.

Ma non è facile restare o diventare dei pacifici old gentlemen nell’era dei web warriors. E anche se fosse facile, il rischio di ridursi a una flebile voce sommersa da un frastuono autistico è molto elevato.

 

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