Tre date scandiscono il declino milanista degli ultimi anni: il 18 maggio 2011 a parametro zero, cioè senza incassare un euro, Andrea Pirlo viene ceduto alla Juventus; il 14 e il 18
Luglio 2012 se ne vanno al Paris St. Germain Thiago Silva e Zlatan Ibrahimovic.
Le cessioni del brasiliano e dello svedese fruttano una sessantina di milioni di euro che rimettono quasi in equilibrio i conti del Milan ma ne compromettono la caratura tecnica e caratteriale. Poi due progetti fallimentari e un rimpianto: il brasiliano Pato, Balotelli e l’argentino Carlos Tevez. Pato è un fuoriclasse fragile, delicato come una porcellana, passa da un infortunio all’altro e non dà garanzie. Nei piani di Galliani dovrebbe rilevarlo l’argentino con il quale ha un pre contratto firmato ma Berlusconi per non contraddire la figlia Barbara – che ha un flirt con il brasiliano – dice di no. Un errore clamoroso imposto dalla pax familiare. Qualsiasi milanista degno di questo nome ancor oggi non riesce a farsene una ragione soprattutto da quando Carlito è approdato alla Juve con gli esiti letali (per gli avversari) che tutti conoscono.
Balotelli, pallino tecnico e mediatico di Adriano Galliani prima e di Prandelli poi, si rivela soltanto un’ipotesi di grande calciatore, un talento gettato al vento per “mancanza di neuroni” come sostiene, duro, Mourinho. Da lì in poi inizia per il Milan una sorta di funambolismo di mercato dominato dalla ricerca di parametri zero, ovvero giocatori quasi sempre sul viale del tramonto, prestiti, scambi e incroci vari. Con occhi quasi sempre distratti verso i giovani rossoneri del vivaio che pure, nelle competizioni a loro riservate, combinano ottime cose. Si naviga a vista guardando al passato più che al futuro.
La verità è che il calcio mediatico, stellare,circense e pubblicitario che Silvio Berlusconi ha contribuito a creare a livello mondiale a partire dal febbraio 1986 quando acquistò, per 6 miliardi di lire un Milan sull’orlo del fallimento, non ammette passi falsi e debolezze finanziarie. È un gatto che si morde la coda. Se non sei in Champions – o più modestamente in Europa League – non puoi disporre delle risorse necessarie per comprare i talenti che garantiscono competitività ad alto livello alle quattro cinque squadre – azienda, presenti nei maggiori tornei europei, ormai gravate da costi di gestione corrente un tempo assolutamente inimmaginabili. Di qui la necessità di investire ogni anno risorse rilevanti come fanno le società inglesi, spagnole e tedesche, in barba al fair play finanziario del velleitario Platini. Il calcio è sempre più uno spettacolo ad uso televisivo con i relativi risvolti economici, sempre meno uno sport nel senso stretto del termine. Solo se sei il Chievo, l’Empoli o l’Udinese e i tuoi obiettivi, peraltro degnissimi, sono la salvezza o la metà classifica puoi restare ai margini dell’Europa e contenere i costi entro limiti ragionevoli puntando su un mix di giovani e di discreti giocatori a fine corsa.
Non può essere naturalmente il caso del Milan, la squadra italiana con il miglior palmarès a livello internazionale. Se non si rimette in fretta in linea di volo la società rossonera rischia davvero l’emarginazione e l’irrilevanza. È evidente che i suoi otto milioni di tifosi paventano questa possibilità e contestano oggi duramente chi ieri ha loro regalato grandi successi in serie. Quindi piaccia o non piaccia gli investitori thailandesi e cinesi sono una strada obbligata come quella indonesiana lo è stata per l’Inter.
Del resto Berlusconi, consapevole delle esigenze del nuovo calcio che lui stesso ha contribuito a creare, in passato ha spinto affinché sopra i campionati nazionali nascesse un Supercampionato europeo riservato esclusivamente ai grandi team più blasonati del continente, una sorta di club esclusivo che avrebbe potuto contare su ricavi certi e diritti televisivi garantiti. Probabilmente le grandi squadre avrebbero navigato in acque più sicure ma il calcio avrebbe perso il suo grande appeal cioè la possibilità che una piccola squadra possa, in qualche occasione, sgambettare compagini assai più titolate. In questo risiedeva il grande fascino della vecchia Coppa dei Campioni tutta giocata sull’eliminazione diretta e dunque sulla possibilità che Davide potesse abbattere Golia.
L’attuale Champions, giocata a gironi con partite di andata e ritorno, non è per fortuna il supertorneo di cui sopra ma con il suo meccanismo garantisce sempre i più forti dentro e fuori il terreno di gioco.
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