Renato, cittadino senza dimora di Varese, vive da oltre un anno in un angolo di piazza Biroldi, a lato dell’Ospedale “Del Ponte”, mentre la notte è attualmente ospite del dormitorio di via Maspero. Una vicenda, la sua, resa nota recentemente dalla cronaca grazie all’intervento di alcuni cittadini, eppure rimasta in tutta la sua evidenza sotto silenzio per molto tempo. Una storia che ha le proprie ragioni nelle pieghe del riserbo e delle scelte personali dell’uomo ormai quasi settantenne ma che comunque non può lasciare indifferenti. Renato ha incrociato nel tempo la solidarietà di molti varesini che hanno portato la sua quotidianità all’attenzione delle istituzioni e dei media, ma ha anche incontrato la perplessità di chi ritenesse inadatta la sua presenza in prossimità del luogo di cura per mamme e bambini. Comunque si voglia leggere e interpretare la vicenda, nulla è tolto allo spessore problematico delle tante situazioni al limite che, in modo tra loro diverso nelle ragioni e nella espressione, sono realtà diffusa di ogni giorno.
Alla mente di molti varesini il caso di Renato ha richiamato quello di Mario, il clochard che alcuni anni fa era deceduto nella sua “casa di cartoni” sotto i portici a fianco del Battistero. La sua morte aveva fatto allora notizia, ma al tempo stesso aveva portato alla luce un silenzioso e garbato legame del clochard con tante persone del centro cittadino: chi lo aveva per lungo tempo accolto all’interno del proprio negozio offrendogli l’ospitalità di un luogo caldo anche di affetti e un angolo per conservare le sue poche cose, chi ne rammentava la gentilezza e la rispettosa e cordiale dignità che arrivava a non accettare nemmeno un caffè che non potesse pagare con gli spiccioli che aveva in tasca.
Chi opera volontariamente nei centri di assistenza o anche solo “semel in anno” ha avuto la possibilità di frequentare la cena dell’ ultimo solidale, organizzata a Giubiano in occasione di San Silvestro, ha del resto potuto incontrare puntualmente volti e persone dalla vita errabonda, per scelta o destino, che affidano i propri giorni alla precarietà della strada e le notti alla provvidenziale opportunità di un rifugio.
Ve ne sono molti più di quanti se ne possano immaginare e, anche nella nostra città, alcuni hanno accompagnato la storia e le vicende collettive, divenendo parte integrante della memoria e della socialità: il famoso ragionier Gervasini, al quale il fagotto di stracci portato a spalla allacciato a un bastone non aveva tolto la dignità del titolo professionale, il goliardico Pappalardo che, come diciamo dalle nostre parti, “ne ha fatte peggio che Bertoldo” con la sua radiolina a tutto volume e scherzi degni del miglior carnevale, oppure il Barbarossa che, col suo passo lento e la barba rossiccia vagamente garibaldina, attraversava le vie del centro andando chissà dove.
Alcune persone entrano infatti attraverso il silenzio della povertà nel cuore della vita comune e da una situazione marginale (l’angolo di piazza Biroldi per Renato, i portici del centro città per Mario) dicono la loro fatica con un linguaggio di gesti e stile di vita che la logica della normalità fatica a comprendere e spesso anche solo ad accettare.
Se però da un lato la povertà riesce anche ad intessere relazioni e forme di spontanea solidarietà, dall’altro il bisogno richiede adeguata risposta. Il numero di poveri crescente a dismisura è un dato economico e sociale rilevante, al quale viene offerto il sostegno forte del volontariato e delle opportunità messe in campo a livello istituzionale. Con la consapevolezza comunque di riuscire a fornire una risposta assolutamente parziale per quanto altamente apprezzabile. “Varese solidale”, una rete di associazioni locali del volontariato sociale, sta potenziando la qualità della risposta con un progetto che diverrà operante a tempi probabilmente brevi. Ma accanto occorre individuare anche adeguati percorsi di progettualità amministrativa orientati alla costruzione di una città capace di inglobare nei propri obiettivi la solidarietà dell’housing sociale, dei fondi collettivi di sostegno attraverso la compartecipazione di pubblico e privato, anche mediante opportunità normate e controllate di messa a disposizione di abitazioni sfitte per chi ne abbia necessità.
Avere un tetto sopra la testa è infatti una essenziale forma di sicurezza, che apre anche la fatica del vivere a soluzioni inaspettate. Come accade ad esempio nella vicina Svizzera, sulle rive del fiume Muggia nei pressi di Locarno, dove è storia reale quella di una comunità di persone che per differenti motivi personali hanno scelto di vivere ai margini della città: storie di fatica che nell’emergenza hanno dato vita a una piccola comunità solidale e nodo di affetti, un luogo dove sentirsi “a casa”. Ne parla Renato Pugina, nel recente e bellissimo film documento “L’ultima spiaggia”.
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