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Attualità

25 APRILE/2 POLDO CHE NON VOLLE SALVARSI

LUISA NEGRI - 24/04/2015

Leopoldo Gasparotto ritratto da un compagno di prigionia a Fossoli

Leopoldo Gasparotto ritratto da un compagno di prigionia a Fossoli

Esiste sulla Resistenza una memoria indebolita, uno strabismo retrospettivo, frutto di negligenze da addebitarsi parte alla scuola, parte a politiche culturali non adeguate.

Ma se non c’è conoscenza, conoscenza critica, non può esserci sostanza della memoria. E nel corso dei settant’ anni trascorsi dalla Liberazione a oggi non c’è stata la volontà di capire fino in fondo, e consegnare coscientemente alla memoria collettiva, la grandezza di quei venti mesi in cui, unico paese in Europa a raggiungere questa intesa, partiti e uomini con culture e fedi politiche diverse riuscirono, sacrificando la loro giovinezza, spesso la vita, a restituire la libertà all’ Italia.

Da questa fondamentale constatazione ha preso avvio un convegno, organizzato da Alumni Cattolica –Associazione Necchi, tenutosi lo scorso 11 aprile all’Università Cattolica, su “La liberazione di Milano e la strage di Cibeno/Fossoli di Carpi del 12 luglio 1944”, coordinato dal presidente Carlo Assi, relatori Luigi Borgomaneri, dell’istituto per lo studio della Storia contemporanea di Milano, Luciano Casali, già ordinario di Storia Contemporanea all’Università di Bologna e Mons. Giovanni Barbareschi, medaglia d’oro del Comune di Milano.

Milano, da ritenersi capitale della Resistenza nazionale, ha conosciuto un’intensa lotta armata. Dopo il 9 giugno ’44, con la nascita del Comando Generale del Corpo Volontari della Libertà, ha visto combattere a fianco a fianco le Brigate Garibaldi e i Gappisti, le Formazioni di Giustizia e libertà e le Formazioni Matteotti, le Brigate del popolo e le Fiamme verdi.

Ha visto crescere lo spontaneismo coraggioso di molti, che contribuirono a salvare vite di perseguitati e a filtrare informazioni preziose. Ed è stata anche teatro di lotte di massa superiori a quelle di altre città, si pensi ai sommovimenti popolari del ‘43 e del ‘44, con un grande sciopero generale.

Il capoluogo lombardo godette allora anche del sostegno concreto di importanti personaggi: come Raffaele Mattioli e Ugo la Malfa. Insospettabili e potenti protagonisti, furono determinanti e determinati, con l’apporto di istituti di credito come Credito Italiano e Banca Commerciale, nel sostenere i fortissimi costi della lotta partigiana, supportando, nelle ultime e decisive fasi della lotta, le spese di un esercito che andava facendosi sempre più grosso. Si pensi poi anche a molti religiosi, come a David Maria Turoldo, e con loro a molti istituti religiosi milanesi di suore e preti, dalle sorelle di Corso Magenta, agli Istituti salesiani e altri ancora. Si pensi a don Giovanni Barbareschi, tra i fondatori del giornale “Il ribelle” e dell’associazione O.S.C.A.R. che ha ribadito, in un suo intervento al convegno, come la libertà non sia un dono, ma una conquista quotidiana da raccomandare ogni giorno ai giovani.

Figure di primo piano della Resistenza sono state direttamente o indirettamente ricordate nel corso del convegno, a proposito di un’ altra pagina tragica, quella in parte negletta, dalla memoria collettiva, della strage di Fossoli del 12 luglio 1944, raccontata nell’intervento di Luciano Casali. Interessante è anche che a Fossoli, pur nelle restrizioni di libertà e di collegamento, si ebbe un’estensione di quella lotta che anche da Milano era partita. Nel cosiddetto campo nuovo, dove approdavano, tra migliaia di internati, i perseguitati politici, poi destinati come gli ebrei a essere spediti su convogli ferroviari blindati verso la “soluzione finale”, erano stati portati anche alcuni dirigenti di primo piano della Resistenza milanese. Arrivò tra gli altri Leopoldo Gasparotto (1902-1944), militante del Partito d’azione dal 1942, figlio dell’ avvocato con studio a Milano, già senatore del regno ed ex ministro radicale, Luigi. Era anche nipote di un garibaldino friulano di Sacile, particolarmente distintosi durante il Risorgimento, poi notabile radical-democratico. Entrato nella clandestinità nel periodo badogliano, Leopoldo Gasparotto diventa il comandante militare delle forze di Resistenza di Milano.

Fu trasferito a Fossoli il 27 aprile del ‘44, dopo la detenzione a San Vittore – cella numero 12, sesto raggio – dove aveva subito atroci torture, sopportate con spirito stoico e con grande coraggio, senza che gli aguzzini fossero riusciti mai a estorcergli alcuna confessione. Lo stesso Montanelli, arrestato e condotto a San Vittore, scriverà poi, in una lettera alla famiglia del 22 agosto 1944, di dovere la salvezza anche al coraggio di Poldo, che mai lasciò trapelare nomi o fatti utili a compromettere persone o obiettivi di lotta: “Quando fui arrestato seppi negli interrogatori, o meglio compresi, che nonostante le torture a cui era stato sottoposto, egli aveva taciuto il mio nome. E a questo silenzio, a questo difficile coraggioso silenzio di Poldo, devo la vita”.

Fin dall’inizio della Resistenza, Poldo aveva fatto dello studio legale del padre prima, della casa di famiglia a Ligurno di Cantello, vicino al confine svizzero poi, un indispensabile punto d’appoggio e ricovero, e luogo di incontro per pianificare azioni di disturbo e di lotta. La casa, individuata, fu poi saccheggiata e devastata dai tedeschi. Ma prima era stata per lui base logistica, assieme ad un altro rifugio nel Bergamasco, dell’ attività illegale che gli permise, finché la delazione di un farmacista milanese non lo consegnò ai nemici, di coordinare alcuni gruppi delle provincie di Como, di Varese e Bergamo, così come di tenere collegamenti tra Milano e le formazioni partigiane delle valli luinesi e dell’Ossola. Fu in contatto anche con il colonnello Croce, che operò coraggiosamente sul San Martino. Protagonista dunque della Resistenza non solo milanese, ma del Nord Italia. Dallo stesso campo di Fossoli riuscirà ad animare il collettivo dei politici, ad organizzare piani di sabotaggio, destinati a impedire il viaggio dei convogli diretti nei campi di sterminio. Anche per tale motivo fu probabilmente eliminato, ancora prima degli altri 67 infelici prigionieri politici, poi trucidati nel luglio dello stesso anno. Poldo avrebbe potuto salvarsi, era già pronto un piano approntato da amici, ma lui non volle acconsentire: per non abbandonare i progetti mirati alla salvezza di altri, per non attirare eventuali rappresaglie sui compagni di prigionia, per continuare a dare il suo contributo, intelligente e disinteressato, votato al puro disegno della libertà.

La nobiltà d’animo gli impedì sempre di pensare a se stesso, di mettere gli affetti personali avanti alle sofferenze di chi era già vittima dei tedeschi. Alla famiglia, prevedendo il prezzo del suo impegno, aveva pensato in anticipo: ponendo la moglie, la varesina Nuccia Colombo (che si adopererà a sua volta per la causa), e il primogenito, il piccolo Pierluigi, in salvo oltreconfine, insieme con il padre cui aveva chiesto di vigilare sui suoi cari e di contribuire, anche da là, alla lotta, svolgendo attività di collegamento con la Svizzera. Il secondo figlio di Poldo, Giuliano, sarebbe nato l’8 marzo del ’44.

Gasparotto era uno stratega, un capo carismatico dotato di grandi qualità organizzative, un uomo forte e puro, cresciuto alla scuola della montagna che amava tantissimo, un esploratore che aveva riportato successi personali persino nel Caucaso e in Antartide, ammirato per questi traguardi nel mondo intero. Unico neo una certa sprovvedutezza nel tutelare se stesso,  per quella visione di bontà e ottimismo cui mai era venuto meno, neppure nei momenti più bui. A Fossoli tenne un diario, arrivato attraverso i compagni superstiti nelle mani di Luigi Gasparotto, e poi fatto pubblicare dal figlio di Poldo, Pierluigi (Diario di Fossoli, Bollati Boringhieri, 2007). Lo tenne dal giorno dell’arrivo, il 27 aprile, fino al giorno prima della morte, il 21 giugno.

Era certo questo un modo per dialogare con se stesso, un esercizio per tenere la mente ben vigile, allenata a non cadere nelle nebbie della paura o della pazzia, ma anche per raccontarsi momenti (persino) di ironia – perché, anche lì, la sua intelligenza li sapeva ben cogliere – o di dolore, o osservazioni di” varia umanità,” o riflessioni e annotazioni, ad uso immediato oppure a memoria futura. A proposito di questo: segnala nel diario che quattro giovanissimi sono arrivati e sono stati ‘adottati’ al campo. E proprio uno di loro, Marcello Martini, ancora vivente, è stato ricordato da Giuliano Gasparotto durante il convegno milanese.

C’è una pagina del diario, memorabile, che supera ogni altra per bellezza narrativa e per quel senso di presagio, e di speranza insieme, che la pervade: “Passatempo: la terra di Fossoli è cretacea, compatta e dura, si frange in blocchi; se si compie uno scavo le pareti si rompono in screpolature frastagliate. Sono sceso nelle trincee, poiché le pareti sono in parte crollate, ho immaginato di aver di fronte delle pareti dolomitiche e, mentalmente, ho studiato su di esse immaginarie vie di ascensione, per camini profondi, o appena pronunciati ‘riss’, per spigoli verticali, creste aeree. Così il mio pensiero alla fine, ingannando l’occhio, mi ha fatto passare una mezzoretta avanti la parete del Sella, ed ho sognato di sbucare dalla parete ombrosa al sole della cima. Qui soltanto una volta ho visto in lontananza il profilo delle colline appenniniche. Dove sono le mie montagne? ”

Il 22 giugno del ‘44 Leopoldo fu chiamato dalla sua baracca nel primo pomeriggio, per essere convocato al locale comando. Lui chiese di potersi cambiare, perché indossava ciabatte e pantaloncini corti, ma non gliene fu dato il tempo. Fu ben presto ammanettato, secondo la testimonianza di alcuni sopravvissuti, e portato via, a bordo di una macchina, verso la campagna. Ci fu poi un improvviso guasto di una gomma, il prigioniero venne fatto scendere, gli chiesero di camminare. Una scarica di proiettili, partiti dai mitra di due ufficiali tedeschi, lo colpì vilmente alle spalle.

Il corpo rientrò furtivamente nel campo prima di sera, nascosto da un telo, a bordo di un furgone intervenuto sul posto dell’esecuzione. I compagni più avveduti, sollevando un lembo del telo, videro tracce di sangue sgocciolare dal suo corpo. Il guidatore del furgone, poco tempo dopo, sarà a sua volta eliminato. Mentre Il corpo di Poldo sarà frettolosamente sepolto, in forma anonima.

Il giovane milanese Antonio Manzi (1913-1944), conosciuto da Gasparotto in montagna e ritrovato a Fossoli, una laurea in scienze economiche e commerciali, alpino, e convinto cospiratore con Ferruccio Parri per la libertà nella brigata di Giustizia e Libertà Gabriele Camozzi, divisione orobica, seppe così della sua morte. Sarebbe stato poi anch’egli eliminato nella lunga lista dei 67 prigionieri politici, vittime della strage del 12 luglio. Prima gli era toccato di scontare a sua volta il duro carcere in quel di Bergamo, sopportando come Poldo le peggiori torture. Ma anche Antonio non aveva parlato e mai aveva smesso di continuare a credere nell’uomo.

Gli furono trovate addosso, tra altri piccoli oggetti, un’ armonica a bocca, quella che amava suonare, una manciata di stelle alpine, e una piccola bussola conservate oggi dalla nipote Elena Magnini, custode della sua memoria.

Il corpo di Antonio, ricoperto di calce e ammassato, con quelli degli altri caduti della strage nella fossa comune fatta scavare, prima della fucilazione, ad alcuni ebrei, fu poi ritrovato e consegnato alla famiglia dopo la Liberazione.

Poldo e Antonio sono entrambi stati insigniti con medaglie al valor militare. Eppure sulla strage di Fossoli, episodio spesso negletto anche dalla memoria collettiva, si aspetta ancora chiarezza definitiva. Ogni procedimento giudiziario, intentato nei confronti degli aguzzini – fascisti repubblichini in primis e tedeschi, come il tenente Titho e il maresciallo Haage – è finito nel nulla. I parenti delle vittime -alcuni presenti al convegno milanese – aspettano da sempre che sia riconosciuta la colpevolezza di chi avviò alla morte sessantasette uomini, prigionieri politici, senza un regolare processo. La debole tesi della vendetta tedesca per un attentato del 25 giugno al porto di Genova, esposta come motivazione dell’esecuzione agli stessi condannati, prima della fucilazione, non ha raccolto il favore degli storici più attenti. Più probabile, è anche la tesi di Luciano Casali, abbia prevalso il desiderio di decapitare lo stato maggiore dell’antifascismo, in buona parte cattolico, presente a Fossoli.

Il Comune di Cantello ha di recente onorato la memoria di Leopoldo Gasparotto con una mostra fotografica e un convegno, ricordando di lui l’uomo e l’alpinista, il patriota e il partigiano, e l’accademico del CAI. Ma soprattutto, sabato 28 febbraio è stata dedicata al suo nome l’intitolazione di un’aula presso la scuola media locale. Segno questo di una scuola che sa ricordare.

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