Nel ripensare la Resistenza, e in particolare la Resistenza a Varese nel 70° anniversario del 25 Aprile 1945, ho un vantaggio ma forse insieme uno svantaggio: per me, come anche per altri senza dubbio, si tratta di una memoria di famiglia. Essendo nato nel 1941 non ne ho un ricordo diretto, salvo alcune poche forti ma confuse immagini di bambino, ma il suo racconto è una parte importante della mia infanzia. Intendendo per racconto sia cose ripetutamente ascoltate, sia memorie di fatti ben presenti anche se poco o mai raccontati, sia luoghi e persone.
Tra queste in primo luogo mio padre Luigi Ronza, primo comandante militare del Varesotto per nomina di Ferruccio Parri, arrestato dai nazisti a Milano già nel novembre 1943 a pochi giorni dalla battaglia del San Martino, quindi deportato nel lager di Mauthausen, per sua buona sorte sopravvissuto e infine rientrato a Varese nel 1945. Poi alcuni altri suoi compagni di lotta con i quali era rimasto più in contatto. Senza la pretesa di essere esauriente ne cito alcuni: il “Barba” Antonio De Bortoli, poi autore di un bellissimo libro di memorie di quei drammatici anni, Emilio Tenti, vinaio che gestiva a Varese un bar in piazza Giovine Italia tuttora esistente, al cui aiuto mio padre doveva la salvezza durante la prima terribile marcia dalla stazione ferroviaria di Mauthausen al lager. Inoltre Giacinto De Grandi, l’elettrotecnico Tredozi, l’ingegner Lucchina. Altri che non avevano fatto ritorno dalla deportazione, come Mario Molteni, come Silani, venivano non di rado ricordati con commossa memoria. D’altra parte c’era grande stima e consuetudine anche con una persona come l’avvocato Gianfranco Moroni il quale, pur essendo di opposte convinzioni politiche, non solo non aveva fatto parola di quanto sapeva di mio padre ma, richiesto di informazioni dopo il suo arresto, per personale amicizia aveva taciuto.
E avendo alle spalle questi ricordi di bambino, quindi i racconti, gli accenni, le testimonianze rimasti nelle mie memorie di ragazzo, che mi sono poi volto a studiare la Resistenza e a valutarne il ruolo storico. Perciò con il vantaggio ma anche con lo svantaggio di cui dicevo. Nel mio giudizio, ma credo in sostanza di non sbagliarmi, la Resistenza fu in primo luogo un nobile e coraggioso moto spontaneo di ribellione contro il nazismo, contro gli occupanti tedeschi e i loro complici fascisti: una rivolta che non fu di molti, né avrebbe potuto esserlo, ma che godeva di un diffuso consenso popolare. La sua importanza non fu innanzitutto militare bensì in primo luogo morale e politica. È chiaro che il nazifascismo venne militarmente sconfitto dagli Alleati. La Resistenza a mano armata dette senza dubbio un contributo anche militare, ma questo almeno in Italia non fu mai determinante. Se invece – fatto straordinario, e invece ben poco ricordato – circa l’84 per cento degli ebrei italiani sfuggì alla deportazione, e così pure venne messo in salvo un gran numero di soldati italiani sbandati e di prigionieri di guerra alleati fuggiaschi, ciò si deve all’”altra Resistenza”, ossia alla resistenza non violenta di migliaia di persone e di famiglie, in particolare contadine, attivamente sostenuta dalla Chiesa.
Il 25 aprile 1945, giorno della resa a Milano dei tedeschi ai partigiani, sono una data e un luogo scelti convenzionalmente per motivi di evidente ordine politico. Sia per l’importanza di Milano e sia perché a Milano i tedeschi si arresero ai partigiani e non alle forze Alleate che vi entrarono successivamente (il che forse venne concordato). In effetti altrove nel Nordovest i combattimenti continuarono fino alla prima settimana di maggio.
Le formazioni partigiane avevano avuto molto presto delle connotazioni politiche, con un impatto crescente del Partito Comunista, ma la politicizzazione profonda della Resistenza armata è un’operazione postuma, sostanzialmente post-bellica, che s’intreccia con la “Guerra fredda”, iniziata tra il 1946 e il 1947. In Italia tale processo è di particolare intensità e significato poiché rientra nel corpus di accordi non scritti ma ben osservati che servirono, peraltro molto efficacemente, a dare pacifica cittadinanza a un grande partito comunista in un Paese come il nostro, appartenente (per fortuna sua) al campo occidentale. Grazie alla pari dignità politica attribuita a tutti i partiti che avevano “fatto la Resistenza” e che poi erano stati rappresentati nell’Assemblea Costituente, i partiti perciò dell’ “arco costituzionale”, il Partito Comunista faceva in certo modo parte della maggioranza di governo pur essendone ufficialmente fuori. Seppure a costi che dalla fine della Guerra Fredda (1991) sino ad oggi non si è ancora finito di pagare, l’Italia sfuggì così al rischio di una guerra civile come quella che altrimenti funestò la Grecia.
In tale prospettiva occorreva sovraccaricare di significato il contributo comunista alla Resistenza per farne la base legittima di quel ruolo di governo indiretto di cui si diceva. È un’operazione di cui certamente sentiremo ancora l’eco in questi giorni magari pure qui da noi, ovvero in una delle tante aree dove la componente comunista della Resistenza non fu affatto predominante. Al di là della retorica da cui in questi giorni saremo inevitabilmente avvolti c’è poi anche da osservare che la Resistenza è una base ideale importante della moderna Italia democratica, ma pretendere che ne sia la base esclusiva è ideologico in tutto il peggior senso del termine. Resta inoltre di nobile memoria e di esempio, ma non ha senso alcuno pretendere di trovarne una ricollocazione immediata in un contesto come l’attuale, ormai privo di qualsiasi nesso con quella affascinante ma trascorsa stagione della storia.
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