Sono tutte leggende. Che si chiamino Garbosi, Rizzi o Barillà. Entrati nella leggenda del nostro basket e che – simpaticamente – meglio orgogliosamente si ripropongono nel rituale torneo pasquale.
Leggenda di un maestro della pallacanestro cresciuto alla Misericordia la mitica palestra della Reyer Venezia prima, giocatore sino alla Nazionale e poi come allenatore giunto a Varese per coronare una meravigliosa carriera anche qui prima come giocatore e poi come allenatore (primo scudetto varesino 1961).
Leggenda Rizzi positivo e modesto nella sua qualità di sesto uomo ma clamorosamente sufficiente per essere determinante sia pure come sostituto nella finale di Coppa Europa in Belgio.
Leggenda quella del giovanissimo Antonino Barillà con il suo amore per il basket troppo prematuramente distrutto dalla sorte ma fatto rivivere per volontà di un genitore altrettanto sportivo, nella memoria alla Pasqua di ogni anno.
Tutte leggende che devono continuare ad esistere.
È un merito quello degli organizzatori Paolo Vittori in testa che, dall’inizio, ha preso a cuore la non indifferente mole di attività che l’evento richiede. Lui, Vittori e tutti gli altri con lui un merito che diventa ancor più grande nel momento attuale quello, cioè, in cui la pallacanestro italiana pare ignorare il ruolo e l’importanza delle giovani leve create sul posto.
Si pratica – oggi – un basket rigorosamente privo di logica trascurando totalmente nella composizione della serie maggiore la presenza dei nostri, degli italiani insomma.
Si creano squadre quasi rigorosamente fatte da stranieri vengano pure da dove vogliono: est-ovest-sud e perfino dal nord purché il cognome risulti difficile da pronunciare. Sembra essere diventato questo il criterio di scelta. Tutto e tutti ok purché stranieri. E si ignorano le stupende fucine dei nostri: oratori che siano o formazioni minori di società italiane ben guidate da validi allenatori.
Si ignorano quasi con accuratezza cercando di evitarle per orientarsi altrove cercando di evitarle, appunto, mentre esistono valide e numerose basterebbe dare un’occhiata in giro senza necessità neppure di dirigersi ad indirizzi nuovi (che, comunque, non guasterebbe) ma ritornando sull’antico.
Che cosa si teme? Di incontrare per strada (tra l’altro con costi inferiori) quei campioncini che avevano indossato le maglie della Ignis reggendo alla pari con i campioni venuti da fuori? O di ritrovare nelle squadrette di provincia meno giocatori di ottimo calibro sotto controllo arrivati al basket dalle formazioni minori di Friuli, Veneto, e altrove piuttosto che da Pesaro e da Bologna?
Il tutto inspiegabilmente ma che altrettanto indegnamente continua. E allora la nostra meravigliosa Pasqua giovanile a che serve?
Serve ancora e moltissimo a riproporre ogni anno nomi, nomi e poi ancora nomi di campioncini in erba. A riproporli con insistenza perché prima o poi il vento dovrà tornare a soffiare nella direzione giusta anche per dare fiato a una Nazionale allo stato attuale – a causa e soprattutto di quanto si diceva sopra – asfittica come non mai.
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